mercoledì 30 novembre 2011

dentro a un piatto di riso


Giuli, ho voglia di un risotto....
così mia madre al telefono, me lo fai? Potevo dirle di no?
Così, pensando a cosa cucinare per il pranzo della domenica, apro il frigorifero....
toh! La salsiccia che giace da qualche giorno mi fa l'occhiolino da sotto una confezione di burro.........ok, ok, ti faccio fare una degna fine.... Vada per il risotto alla monzese...

Arriva la domenica, preparo il risotto, e andiamo a tavola.
Mio marito, appena infilata in bocca la prima forchettata di riso, mi dice: - ti ricordi di quello che ci faceva la zia Libera?
Come non ricordarlo! E' legato ai nostri inizi, posso dimenticarlo?? 
E' vero che sono passati quarant'anni e più, ma la memoria storica ce l'ho ancora, è quella breve che fa i capricci!

E allora ricordiamo davvero.....

Si chiamava Liberata ma la chiamavano Libera, non ho mai saputo il perché di questo nome così significativo, nel tempo e fra i suoi documenti non ho trovato nulla che dicesse da che parte era arrivato, se c'era un bisnonno o qualcun'altro di cui continuare il nome. Ricordo che glielo avevo anche chiesto, ma lei si era stretta nelle spalle e, scrollando la testa, mi aveva risposto che sua madre non glielo aveva mai spiegato.......strana la famiglia Corti!

Libera era la quinta dei sei fratelli Corti, nata sul finire del gennaio 1904, quando sua madre pensava di aver smesso di scodellare figli al ritmo di uno ogni due anni, e invece l’ultima davvero fu, cinque anni più avanti, la zia Letizia, di cui ho già parlato ampiamente.


 qui in una foto di gioventù, penso sul finire degli anni '20, a giudicare dalla pettinatura a onde, dalle scarpe alla bebé e dal vestito....


Quando l’ho conosciuta era già nella mezza età, vedova da poco. Suo marito era mancato, nell’Ottobre del 1966 e io avevo da poco incontrato quello che sarebbe poi diventato mio marito, stavamo insieme da pochi giorni, per cui non ho avuto proprio modo di conoscerlo...
Lei era una donna alta, rotonda ma non grassa, con dei capelli castano/biondo raccolti sulla sommità della testa a piccoli boccoli, tenuti insieme dalle forcine.. 
Io non me la ricordo riccia come nelle foto da giovane, ma sempre con quei suoi capelli tirati in su, e quei boccoli arrotolati fra le dita e fissati con le forcine sulla sommità della testa..
Da che ho memoria di lei, non ha mai cambiato pettinatura, non come me che ho sempre cambiato testa, ogni volta che mi prendeva lo schizzo di arricciare, tagliare, colorare......solo ora, che sono anch'io nella mezza età, ho più o meno la stessa pettinatura da qualche anno....

Stranamente la sua statura sovrastava quella di tutti i fratelli, non molto alti in verità. Nelle vecchie foto, o è seduta oppure, quando è in piedi, svetta su tutti.




lei è la prima a sinistra,  poi la zia Stella e poi mio suocero, una  amica storica delle sorelle, la Ines,  e quindi la zia Letizia





qui in gita con gli amici.. e lei è quella seduta a destra....

Non ho molte foto sue, quelle che ho sono quasi tutte formato tessera, fatte in varie epoche...
questa penso sia degli anni '20/30....non ne sono sicura, ma la pettinatura è quella di quegli anni...
questa penso sia degli anni '40

anno 1959, c'è scritto dietro stavolta...




e questa è come l'ho conosciuta io






Delle sorelle Corti era la più frivola, un po' leggera probabilmente, sempre pronta più a divertirsi che a lavorare, a pensare a comprarsi cappelli nuovi, scarpe, guanti di ogni tipo, borse e vestiti, spendacciona oltre ogni dire....le altre sorelle mugugnavano, e lo hanno fatto tutta la vita....
Lei però era l'unica delle sorelle Corti che volesse veramente bene a mia suocera, sua cognata, una volta che entrò a far parte della famiglia, l'unica che instaurò con lei un rapporto profondo, di amicizia e sorellanza affettuosa.....e di questo le sarò sempre grata.
Mia suocera era nata a Zara, quando ancora era italiana, ed era venuta a lavorare a Cernobbio, come cameriera per la famiglia Mandelli, una delle famiglie più benestanti di allora a Cernobbio.... ...qui aveva conosciuto mio suocero....ma la loro storia merita un capitolo a parte...
Si era sposata molto tardi la zia Libera, nel 1941, mentre si avvicinava alla quarantina, dopo aver, come si dice, corso parecchio la cavallina, d'altra parte con quel nome.......nomen omen...
Si era praticamente accontentata per potersi accasare e per sfuggire alla maldicenza e alle dinamiche di un piccolo paese qual’era Cernobbio fino agli anni della guerra...

Suo marito, lo zio Danilo, classe 1900,  originario del Monferrato, si era trasferito in città da  bambino, e  lo aveva conosciuto per caso. Le  era stato presentato da una amica comune che era venuta da Milano e che lui aveva accompagnato. Ed era arrivato proprio nel momento in cui si era quasi rassegnata a rimanere zitella..
Un uomo niente affatto bello, nemmeno carino a giudicare dalle foto, anzi, piuttosto basso e con un naso un po' camuso....Insieme non erano certo quel che si dice una bella coppia....

 questa è una delle poche foto sue, e fatta quando era già sulla cinquantina




Lui era appena tornato dalla Spagna, dove era andato volontario, per combattere dalla parte dei fascisti di Franco, poi sul finire della guerra era stato ferito leggermente e quindi, nel 1939 era rientrato.
Trovammo, una volta mancata la zia, mentre provvedevamo a disfare la sua casa, una lettera della sezione del Fascio della zona che intimava alla vecchia ditta dove era impiegato di reintegrarlo in organico e di pagargli tutti gli stipendi arretrati per il periodo di assenza, pena la chiusura forzata e il sequestro dell’attività e la minaccia dell’impiego di altri mezzi se non ottemperavano....
Ricordo perfettamente che c’era una data, l’anno XXII dell’era fascista, che sinceramente non so a che anno reale si riferisse, credo fosse il 1943/44, ma posso sbagliare...
Un documento che a tenerlo fra le mani mi ha fatto una certa impressione, è stato come tenere fra le mani un pezzo della nostra storia, terribilmente tragica, e scoprire poi che è stata anche vissuta e partecipata in quel modo da questo zio acquisito non è stato affatto piacevole.

Si conobbero dicevo, in una giornata di sole e nella cornice magica e romantica del lago di Como, almeno così raccontava zia Libera...
Non fu un amore travolgente, anzi, credo proprio che lei non fosse assolutamente innamorata. E’ che si rendeva conto che lui significava l’ultima opportunità di fare un buon matrimonio, di lasciare Cernobbio, un paese che, lago a parte, le stava stretto più che mai.
Si fidanzarono e il fidanzamento durò quasi due anni, poi si sposarono senza troppo clamore, e vennero a vivere a Milano, in una piccola casa di ringhiera a due piani in via Porro Lambertenghi,in fondo alla via Farini, dove lo zio aveva comprato due stanze.

Erano proprio due stanze. E neanche tanto grandi. Una era quella che fungeva da ingresso, soggiorno e cucina, mentre, all'interno, una porta la divideva dalla camera da letto che affacciava invece dall'altro lato della casa, sulla via Lambertenghi....il bagno, se così si può chiamare, era in fondo alla ringhiera, in comune con le altre due famiglie che vivevano su quel lato.
Consisteva in una turca e stop. Come ho già avuto modo di raccontare, ci si lavava nella tinozza, scaldando l'acqua sul fornello a gas...oppure si andava alle docce pubbliche, ce n'erano e ce ne sono molte tuttora sparse in tutta la città...

Ci ha vissuto praticamente quasi tutta la sua vita in quelle due stanze senza servizi......
zio Danilo era un tornitore specializzato, e per quel tempo era una qualifica che garantiva una paga abbastanza alta. Ma non tanto alta da permettere alla zia di fare solo la casalinga.
Così lei mise a frutto quello che aveva imparato quando da ragazzina aiutava la madre a lavorare le spolette di seta. Era occhiellaia, faceva asole in seta a giacche e pantaloni, lavorava per i sarti che a quel tempo erano molto numerosi perché gli abiti venivano fatti fare dalle sartorie, non esistevano ancora le confezioni in serie, vennero molto dopo.
Un mestiere parecchio ricercato il suo, non erano molti a saperlo fare bene, e lei invece era anche molto richiesta, aveva parecchio lavoro e un giro numeroso di sarti che le affidavano le loro creazioni da rifinire... c'era sempre un via vai frenetico su per quelle scale!
Occhiellaia.....a dirlo oggi credo che pochi sappiano cosa significhi....già quando l'ho conosciuta io il lavoro era molto calato, non c'era più tanto bisogno di occhielli fatti a mano, costavano troppo rispetto a quelli fatti a macchina, quelli fatti a mano erano più per l'alta sartoria che altro...
Ma lei continuò a cucire le asole delle giacche finché ci fu un sarto a chiederglielo...ricordo di averla vista curva su una giacca che era già molto avanti con gli anni, poi smise anche perché non ci vedeva più tanto bene...

Come sua sorella Letizia, anche a lei piaceva cucinare, e lo faceva davvero bene.

Lo zio Danilo, così racconta mio marito, era un tipo abbastanza strano e anche un po' burlone...
Pretendeva che lei apparecchiasse tutti i giorni la tavola come per le grandi occasioni..tovaglia di fiandra rigorosamente bianca, tre o quattro bicchieri, posate che servissero dall'antipasto al dessert, tovaglioli piegati con molta cura, l'acqua e il vino nelle bottiglie di cristallo, poi arrivava, perennemente in ritardo, si sedeva a tavola e il più delle volte non toccava cibo...
lei che magari aveva cucinato tutta la mattina, andava su tutte le furie e lo mandava a quel paese e lui, serafico:
- Libera, t'el set? (sai?)
- t'u cumprà el teren ( ti ho comprato il terreno)
- Oh che bel, ma n'doué?? - (ma dove) rispondeva lei
- a Musocc ( a Musocco, il cimitero più grande di Milano)...

al che lei faceva volare i piatte e non gli parlava fino al giorno dopo, quando la sceneggiata della tavola apparecchiata  in grande stile si ripeteva....


Quando finalmente, passati un po' di mesi, la conobbi,  invitò me e suo nipote a pranzo, era di sabato, lo ricordo come fosse oggi.
Ricordo quella casa, dove ordine era una parola priva di significato....piena di ninnoli, di soprammobili, di fotografie appese al muro e di quadri fatti con i coperchi delle scatole di cioccolatini.
Sì perchè un tempo sulle scatole di cioccolatini, fatte di un cartone molto rigido, un poco imbottito a volte, c'erano sempre delle stampe di fiori, o di panorami bellissimi..ci voleva niente a metterle in cornice!
Ricordo la ghiacciaia, e mi colpì parecchio il fatto che la usasse ancora, nonostante un frigorifero a tavolino facesse bella mostra di se lì a fianco....mi domandai dove trovasse il ghiaccio...i carbonai, non esistevano quasi più e i pochi rimasti si erano convertiti alle taniche di gasolio e alle stufe elettriche, niente più carbone d'inverno e ghiaccio d'estate.......non lo seppi mai...
Per me che avevo  17 anni, e vivevo in un presente in evoluzione continua, confrontarmi con la sua realtà e il suo modo di vivere un po' rivolto al passato è stato incredibile e
mi ha permesso di intravvedere un'epoca e un mondo completamente sconosciuto, difficile da immaginare.

Quando cominciò ad avere problemi di salute, soprattutto di artrite deformante  talmente devastante che a un certo punto arrivò ad impedirle di camminare, si trasferì a casa della sorella minore, la zia Letizia appunto.
Litigavano come cane e gatto, e ogni volta che andavamo a trovarle, sentivamo le litanie di una e dell'altra e cercavamo di calmarle........ma poi tutto si quietava e l'affetto fra loro prevaleva...
la zia Letizia la accudiva in tutto e per tutto, e lei un po' ne approfittava. Ma tutto questo ebbe poca durata, la zia Letizia si ammalò e nel giro di poco tempo morì, e la zia Libera restò sola.
Era molto benvoluta anche dai parenti dello zio, soprattutto da una sua nipote, Ester, ballerina della Scala, che ho conosciuto anch'io e che non ha mai smesso restarle vicino anche dopo, quando morì lo zio...



eccola qui in una foto del 1933
Fortunosamente si riuscì a trovarle un posto al Palazzolo,  storica casa di riposo di Milano, nel reparto dei non autosufficienti. Lei lo era parzialmente, era lucidissima, ma si muoveva solo con la sua sedia a rotelle.
Ricordo con profonda tristezza quel periodo. Per andare al reparto dove era lei, dovevo percorrere tutto il lunghissimo corridoio del primo piano dove erano ricoverate donne molto anziane che non ci stavano più con la testa, e ogni volta, fra le altre, passavo davanti a una stanza che aveva sempre l'uscio aperto e dove c'era fissa una nonnina su una sedia a dondolo che cullava una bambola. La cosa mi sconvolgeva....quando uscivo, dopo la visita alla zia, mi ci voleva almeno un'ora prima cdi tornare alla normalità....le mie figlie erano ancora piccole, a volte le portavo perché lei giustamente le voleva vedere, e mi stringevano le mani forte forte, mentre percorrevamo quei lunghissimi metri, come a dire che no, non mi avrebbero mai lasciato lì....
Lo ricordo anche come un periodo difficile quello...dover vuotare la sua casa, ma conservando comunque tutto il suo guardaroba e la sua biancheria, che serviva di ricambio in casa di riposo, e che io provvedevo a portarle tutte le settimane..dover conciliare il lavoro, la casa, la famiglia, le bimbe da seguire a scuola, le visite due volte la settimana che le facevo...è stato veramente faticoso........D'altra parte ci teneva tantissimo ai suoi vestiti, alle sue scarpe, alle sue borsette, e non poteva tenerle tutte nel piccolo guardaroba della sua camera alla casa di riposo, come non accontentarla? Era stata vanitosa in tutta la sua vita, e lo era ancor di più ora che stava in quel posto, le piaceva essere elegante, sempre. Era il suo modo di rimanere legata alla vita normale, quella di quando stava bene e poteva muoversi come voleva, un modo per non sentire la mancanza della sua casa e dei suoi oggetti, e di conservare la sua dignità anche dentro a un posto come quello, che anche se era molto pulito, organizzato, con animatori e volontari che tutti i giorni organizzavano cose, era pur sempre una casa di riposo, una specie di cronicario dove sapeva che sarebbero finiti i suoi giorni...
Rimase un paio d'anni al Palazzolo, ma sono stati comunque anni sereni. Era entrata a far parte di un gruppo di anziane che sotto la guida della responsabile del reparto avevano messo in piedi tutta una attività di beneficienza. Cucivano, ricamavano, facevano lavori a maglia, chi dipingeva su vetro, chi su tela, chi faceva lavoretti di ceramica, tutte cose che poi vendevano ai parenti o nelle feste che organizzavano aperte anche agli esterni, e quello che raccoglievano lo destinavano ogni anno ad un ente diverso....


Una giorno mi chiese di portarle della carta crespa rossa. Non le feci domande, andai in cartoleria e la comprai, chiedendomi a cosa le servisse.....lo scoprii appena gliela portai. Strappò un pezzetto dal rotolo, lo appallottolò, mi chiese lo specchio e cominciò a strofinare quella carta rossa sugli zigomi......rimasi di stucco, avevo appena capito cosa usavano le donne dell'altro secolo come fard....

Ora quel gesto è legato al suo ricordo, e me la vedo ogni tanto, con quelle guance appena appena rosse, che contrastano con la pelle diafana del viso. Quando mi torna questa immagine, non posso fare a meno di pensare a lei con tenerezza, e risento la sua voce che mi chiede se voglio ancora una cucchiaiata di risotto...uno dei suoi piatti preferiti....quando andavamo da lei sapevamo già qual'era il menu.....risotto alla monzese e arrosto di maiale al latte....

Ogni tanto mi capita di passare da Via Porro Lambertenghi e di guardare su, verso la finestra di quella che è stata la sua camera da letto.....chissà chi ci abita ora in quelle due stanze
chissà....



eccolo il suo risotto.....domenica nel piatto non c'era solo quello, c'era anche un pezzo della nostra vita...






 Risotto alla monzese

300 gr luganega (salsiccia dolce)
1 piccola cipolla
riso q.b. (io calcolo 2 pugni a testa più 2 per la pentola)
1 bicchiere di vino bianco
una noce di burro 
poco olio
parmigiano grattugiato
1 bustina di zafferano
brodo
sale
Scaldare il brodo. Spellare la salsiccia e ridurla a piccoli  bocconcini.
In un goccio d'olio far appassire la cipolla affettata finemente, unire la salsiccia  e lasciar cuocere mescolando ogni tanto finché la salsiccia si sarà colorita.
A questo punto versare il riso e lasciar tostare finchè è un poco translucido, mescolando sempre.
Sfumare con il vino bianco, poi procedere come per un normale risotto, mescolando e aggiungendo poco brodo alla volta, man mano che il riso lo assorbe.
A metà cottura aggiungere anche la bustina di zafferano. Un paio di minuti prima di spegnere, aggiungere una generosa noce di burro e un paio di cucchiai colmi di parmigiano grattugiato. Mescolare energicamente e spegnere il fuoco. Lasciar riposare qualche secondo e servire.

La zia Libera diceva sempre che il riso nasce nell'acqua e va annaffiato col vino...
per cui un buon bicchiere di rosso giovane, magari una Barbera dell'Oltrepo pavese, di quella che "buscia", ci sta benissimo,  sgrassa la bocca e ti fa digerire.....






martedì 29 novembre 2011

a lezione da Gianluca Fusto

chi è  Gianluca Fusto?
E' un   giovane pasticcere, pieno di talento, passione e amore per il suo lavoro. Passione e amore che si percepiscono molto bene assistendo alle sue lezioni.


Guardando le sue mani, i suoi gesti, e come si muove  fra creme e streusel, fra mousse e frolle



e  ascoltandolo mentre spiega come si tempera il cioccolato, o come si fa una marmellata molto particolare,  o un dolce da colazione,






osservandolo mentre decora una panna cotta, concentrato come fosse un momento mistico, o  usa la sac à poche per un goloso dessert al limonte






e poi guardando i suoi occhi mentre divertito e curioso ti mette alla prova degli aromi, capisci  non solo che hai davanti una persona  di grande esperienza pur essendo così giovane, (ha l'età di mia figlia)  ma anche la sua genialità,  la sua capacità di  "sentire" gli accostamenti, anche i più azzardati e di tradurli in sapori che di primo acchito ti lasciano sbalordita, senza una parola, ma che pian piano  ti conquistano inesorabilmente.
Così come ti conquistano  a prima vista, la sua affabilità, la sua semplicità nel farti sentire come se lo avessi sempre conosciuto.
E non puoi fare altro che stare ad ascoltarlo con attenzione, tanta è la sua capacità di trasmettere quelle che sono le sue sensazioni, le sue emozioni e la sua esperienza.

per cui, grazie Gianluca, mi sono piaciute molto le ore passate insieme a te  e agli altri..
Un grazie anche a Francesca e Alessandro, di Incontri con lo Chef, per la grande simpatia, disponibilità e gentilezza...
Peccato per me che la prima parte del programma me lo sono perso a causa di una improvvisa emergenza...

Intanto sono passate circa due settimane dal corso di Gianluca,  ma ho ancora negli occhi e in testa i profumi e i sapori di quella giornata...

E' stata davvero una bella esperienza, e in più  ho conosciuto persone molto simpatiche, appassionate come me di cucina e di pasticceria.
E così, comincio a produrre anch'io, seguendo gli insegnamenti di Gianluca.

Parto dalla cosa più facile  ma dal sapore più inusuale e inaspettato.



ho rimodulato le dosi perchè nella  ricetta Gianluca mette il quantitativo a cui è abituato, vale a dire per un reggimento di fanteria....
quello che ne è uscito mi è piaciuto e pur  non avendo potuto  assaggiare  l'originale, penso di aver ottenuto il risultato giusto, devo solo armonizzare meglio il rapporto rosmarino/arancia.
La ricetta che vi metto ne tiene già conto...


Crème brulée all'arancia e rosmarino

330 gr panna liquida  fresca (la sua ricetta prevede panna 35% di grassi e  UHT ma io preferisco quella fresca, perchè la crema mi piace bella densa, pazienza per il mio colesterolo)
170 gr latte (idem, lui va di latte UHT, io invece  latte fresco )
70 gr tuorlo d'uovo
70 gr zucchero
6 gr rosmarino
8 gr zeste di arancia non trattata, biologica
1 gr di sale di Piran (oppure un sale dolce)
1 cucchiaino di estratto di vaniglia,
oppure meno di mezza bacca.



Unire i tuorli allo zucchero e al sale, mescolando bene. Lasciar riposare il tutto per almeno 15 minuti.
Scaldare il latte  insieme alla panna a 80°, quindi unire il rosmarino tagliato a pezzetti, le zeste di arancia e la vaniglia.
Lasciare tutto in infusione almeno 30 minuti.  Quindi riportare a bollore e poi unire in tre o quattro volte ai tuorli, mescolando delicatamente finché il tutto è completamente amalgamato.
A questo punto, filtrare la crema e vesarla nelle cocottine da crème brulée.
Eliminare delicatamente eventuali bolle d'aria che si sono formate in superficie ed infornare.
Cuocere in forno statico a 130° per circa un'ora, ma la cottura naturalmente varia da forno a forno. E' pronta quando resiste al tatto ma muovendola è ancora  un po' tremula.
Si solidificherà del tutto poi in frigorifero, ed è meglio prepararla almeno un giorno prima, così ha il tempo di assestarsi, di rassodare amalgamando i sapori.
Fusto dice di cuocerla a secco,  io invece ho messo le cocottine in una teglia rettangolare  bassa e ho aggiundo due dita di acqua calda. Ho l'impressione che questa cottura le dia più cremosità, ma magari mi sbaglio, e il risultato sarebbe lo stesso cuocendola a secco.

Non so se lui l'abbia bruciata poi, una volta pronta da servire, io non ero presente a quella prima parte dove è stata preparata questa crema,  per cui credo che si possa servire sia brulée che tal quale.

Nel caso che, come me,  preferiate avere una crème brulée a tutti gli effetti, basta cospargerla di zucchero di canna chiaro e bruciare con il cannello.

Io non so rinunciare a quella crosticina golosa, e mi piace sentire il rumore del cucchiaino che affonda fra lo zucchero caramellato e la morbida  e voluttuosa crema......


sì, lo so, sono rovinata coi dolci al cucchiaio.....













domenica 27 novembre 2011

il dolce della domenica

La domenica è il giorno in cui posso andare con lentezza,  soprattutto d'inverno, che gli impegni si diradano un po'..... è il giorno in cui resto a ciabattare per casa, spostandomi fra divano e poltrone, fra un libro e  il computer, fra un sospiro e uno sbadiglio.... la TV no, ho smesso da tempo di guardarla...
così la mattina la passo in cucina, la faccio diventare  un momento tutto mio, un tempo che mi serve per provare ricette più laboriose e  che hanno bisogno di essere coccolate con pazienza, un momento anche per lasciare spazio alla fantasia, che durante la settimana è compressa fra le mille urgenze, il tempo sempre contato , le ore che volano a rotta di collo e non ti bastano mai...
Accosto la porta della cucina per non disturbare chi dorme, mi faccio un buon caffè, metto in sottofondo   Rai News per le notizie e  la giornata si avvia..... i gatti mi fanno compagnia, seguendo ogni mio più piccolo movimento, presenze costanti e silenziose, condividono tutto, sempre, come fossero la mia ombra...uno si pazza sulla sedia di cucina, l'altra si acciambella sul calorifero...ormai sanno come prendermi...
Da quando mi sono sposata, una vita fa,  non è domenica senza un dolce, anche il più semplice, non fossero altro che frittelle di mele in mancanza d'altro...tutto per sottolineare il giorno di festa.
Ci son cresciuta con questa cosa  "della festa".....le scarpe della festa, gli abiti della festa, il pranzo della festa...retaggio di tempi difficili dove l'unico vestito buono mia madre me  lo teneva per la domenica,  per le feste comandate, per i matrimoni e, se non era troppo chiassoso, per   i funerali, ....
Fa niente se tu crescevi e il vestito non ti andava più bene nonostante fosse ancora quasi nuovo.... così funzionava. Si tenevano con  talmente tanta cura  le cose che alla fine non le usavi e non ne godevi  quasi mai....
Mia madre ha ancora adesso cassetti dove conserva camicie da notte nuove di zecca - per quando andrò in ospedale -  mi dice.....le è capitato tre o quattro volte  in 83 anni, e alcune fanno ormai parte della  storia dell'intimo...
La domenica dicevo, è il giorno in cui la famiglia originaria torna a ricomporsi, completata dai generi e  dai nipoti...e fin da quando le mie figlie erano piccole, il dolce non poteva mancare. Magari erano solo i pasticcini  o una torta di  pasticceria, o, come dicevo,  delle semplici frittele di mele di cui le bambine andavano matte e non ne avevano mai abbastanza....

poi ho imparato a cucinare un po' meglio, e il dolce continua ad essere d'obbligo.....

questo è quello di oggi, ed è una vecchissima ricetta di Maurizio, lo chef del Ristorante al Mulino,  lo stesso della crema rovesciata alle mandorle..





Torta di mandorle e arancia


Il succo di 2 arance non trattate, non troppo grandi
la buccia grattugiata di una delle arance
La buccia di 1 limone grattugiata
3 tuorli
3 albumi montati a neve
150 gr zucchero
150 gr mandorle pelate tritate finissime (o nocciole)
50 gr mandorle con la buccia
50 gr biscotti secchi tritati

per guarnire:

poca marmellata d'arancia
mandorle a filetti
poco zucchero a velo


tostare le mandorle pelate in forno. Lasciarle raffreddare poi tritarle nel tritatutto con i biscotti secchi. Tostare anche le mandorle a lamelle e tenere da parte.Tritare anche le mandorle con la buccia, finemente ma non troppo.
Grattugiare la buccia di una arancia.
Spremere entrambe le arance filtrandone il succo.
Montare i tuorli con parte dello zucchero, unire la buccia del limone e il succo e la scorza d’arancia, aggiungere quindi il trito di mandorle e biscotti secchi, infine montare a neve densissima gli albumi con il restante zucchero e unirli delicatamente all'impasto.
La pastella che ne risulterà sarà abbastanza liquida, è normale.
Imburrare e infarinare uno stampo
possibilmente a cerniera piccolo, da 22 cm. è perfetto.
Cuocere in forno a 180° per circa 40 minuti, controllando, prima di toglierla dal forno, con lo stecchino. Ogni forno è una cosa a sè,  per cui la cottura può variare, l'importante comunque è la prova stecchino. La torta all'interno dovrà essere un po' umidiccia e morbida, ma cotta. Lo stecchino dovrà comunque uscire pulito.
Farla raffreddare qualche minuto nello stampo, poi sformare e appoggiare la torta  su una gratella e al momento di servire stendere un leggerissimo velo di marmellata di arance sulla torta e su parte del bordo,  servirà solo a tenere ferme le mandorle a lamelle.
Cospargere la torta di mandorle a lamelle tostate,  facendole cadere anche sui bordi  e spolverare di zucchero a velo.



l'interno, morbido e fondente...è una torta leggera, senza grassi, e senza lievito, molto piacevole che si può fare anche sostituendo le mandorle con le nocciole, ma  con queste non ci ho ancora provato,  da tanto  che ci piace così....




spero che piaccia anche a voi...


venerdì 25 novembre 2011

un pezzetto del mio cuore


E' a Nosy Be, a poche miglia dalla Grande Terre, il Madagascar, un'isola che definire paradiso non rende veramente l'idea.

Il Madagascar, che si affaccia sul canale di Mozambico e dalla parte opposta sull'Oceano Indiano, è chiamato l'Isola Rossa perchè il suo terreno è costituito per la maggior parte di Laterite, una roccia sedimentaria ricca di ferro e alluminio, che viene trasportata al mare dai numerosi fiumi.
E' la quarta isola al mondo, con il più ricco patrimonio naturale del pianeta.
E' una terra dai molti colori, che variano dal rosso del terreno al verde delle foreste, al blu e al turchese dell'Oceano che la circonda.






Una terra magica, dove si ritrova il ritmo con la natura, lussureggiante e rigogliosa, dove ci si sente in armonia con se stessi e il creato...lo sguardo passa incredulo da una specia ell'altra, dalle palme al frangipane, dal rosso sangue degli ibisco del Gabon all'albero del caffè, dal profumo dell'ylang ylang alla bellezza del fiore di corallo...











la fauna è qualcosa che non ti aspetti, qualcosa che difficilmente potrai vedere altrove, tantissime specie di camaleonti, piccoli gechi verdissimi, cicale enormi che stordiscono e ti impediscono persino di sentire la voce umana, lucertole grandi come iguane,  ragni enormi, stelle marine di ogni tipo, aironi blu, il temerario Martin Pescatore e i lemuri, creature deliziosamente miti, morbidissimi e socievoli, giocosi e affettuosissimi...















Le isole disseminate intorno sono piccoli paradisi terrestri, con sabbie bianche e spiagge incontaminate, popolate solo da sporadici villaggi costruiti vicino a un corso d'acqua...alcune ti sembra persino impossibile che possano esistere con tanta bellezza, il cielo sembra così vicino da poterlo toccare, e il mare è talmente cristallino e ricco di sfumature di blu che ti immagini di essere dentro a un dipinto di Chagall...













Ma quello che colpisce di più è la gente.
Gli abitanti di questa meravigliosa isola sono un popolo unico e allo stesso tempo una mescolanza di razze, di Africa, India e Polinesia. Sono belli, eleganti, sinuosi, vivono con ritmi lenti e tranquilli, e quando sei con loro ti immergi completamente nella loro cultura e nelle loro antiche tradizioni.
Sono tutti cordiali e bendisposti, sempre con il sorriso sulle labbra, nonostante abbiano una vita assolutamente difficile, fra mille problemi e una miseria cronica, endemica, rassegnata, quasi fatalista.
Le loro case sono poverissime baracche di legno e palme, una povertà che ti lascia senza fiato, che ti colpisce come un pugno a tutta forza nello stomaco, che ti fa riconsiderare tutta la tua vita, che ti spinge a fare qualcosa , qualsiasi cosa, per portare aiuto, non ne puoi fare a meno, sentendoti anche colpevole per quello che sprechi senza remore. 




Le poche auto che girano, perlopiù di provenienza francese, tipo R4 e altre vecchie Renault, sono tenute in vita da meccanici di tutto rispetto, appaiono morte, ma risorgono sempre, hanno molte vite, come i gatti.




Le donne, anche qui, reggono il peso di tutto, sono loro che accudiscono i bambini, che fanno il bucato nel rigagnolo che scorre poco lontano dalla capanna, che preparano quel poco cibo, cucinandolo su bracieri improbabili fuori delle capanne, che vanno fin da bambine  a prendere l'acqua facendo chilometri e tornano camminando leggere con quella straordinaria abilità di tenere qualsiasi cosa in equilibrio sulla testa, sempre le donne intrecciano con grande abilità stuoie morbide in fibra di cocco, o ricamano e intagliano tovaglie da vendere ai turisti per pochi euro, contribuendo al magro bilancio familiare, donne che si dipingono il viso di fiori...























Gli uomini che vivono sulle coste vanno a pesca per la maggior parte del tempo, su piroghe scavate nel legno o su barche malmesse dalle vele malamente rattoppate, e affrontano l'oceano, lo conoscono, lo praticano tutti i giorni, e quando tornano, frotte di bambini aiutano a lavare e pulire il pesce per la famiglia, pensando anche alla sua conservazione, per quando il mare darà pochi frutti, gli altri, quelli che vivono nell'interno, sono contadini e pastori, e pastori ricchi se hanno uno zebù...












In Madagascar lo zebù è molto più di un semplice animale, è un simbolo di ricchezza, di vita e di morte. Simbolo di ricchezza, perché questa è comunemente misurata da quanti omby (zebù) possiede una famiglia, è simbolo di vita perché di questo animale si sfrutta tutto, lavoro nei campi, animale da trasporto, latte, carne, pelle e corna, ed è anche simbolo di morte perché viene sacrificato e offerto in banchetto a tutti i partecipanti ad un funerale e le corna serviranno ad abbellire le tombe dei defunti, o gli alberi intorno alla capanna dove vive la famiglia che lo possedeva.






E quanti mercati......
a volte all'aperto, e a volte al chiuso....sono una esplosione di colori e di odori, nel mezzo di un caos di gente e la merce esposta su tavoloni di legno...hanno poco i malgasci ma quel poco è esposto con ordine e cura...i pomodori impilati con ordine, il pesce secco per grandezza, le ceste di granchi vivi ricoperti di fango per tenerli idratati, oppure quelle di riso, rigorosamente allineate, e le bottiglie tutte in ordine di grandezza,







Ci si fanno incontri incredibili intorno al mercato....a volte galline e tacchini vengono trasportati appesi per le zampe, e sembrano borbottare seccati guardandosi intorno da sotto in su...




Accanto ai mercati di carne e di verdura ci sono sempre angoli di erbe medicinali e spezie, una sorta di farmacia tribale che una specie di stregone espone per la strada, per chi non vuole affidarsi alla medicina come la conosciamo noi...
Le cortecce intrecciate odorano di alberi antichi e saggi, ceppi di aloe vengono ordinatamente accatastati. Le loro foglie sembra che servano per curare i gonfiori dovuti alle slogature e per disinfettare le ferite.




Dopo le erbe si incontrano le pentole; dopo le pentole i saponi, e dopo i saponi, le stoffe...







I piccoli paesi sono pressocché delle bidonville, la vita si svolge tranquillamente per le strade polverose, la corrente elettrica fornita da un unico generatore per tutta l'isola, e soprattutto per chi può comprarsi un trasformatore, altrimenti resta solo la luce delle candele.
La notte cade prestissimo lì, alle 17 è già buio pesto, e passando per quelle strade, le puoi trovare disseminate di piccolissime luci tremule, che ti fanno pensare a presepi sparsi e mollemente allungati








mentre il tramonto incendia il cielo, lungo la linea dell'orizzonte sul mare...






Passi per le strade e guardando ai lati vedi le persone sedute fuori dalle capanne, rischiarate dalla flebile luce delle candele e del braciere dove cuoce la cena...
il pasto è sempre molto povero, anche se la loro cucina, pur essendo scarna, è comunque ricca di profumi e sapori,..il riso al cocco per esempio, è di una bontà incredibile, così' come il pesce alla vaniglia, che mai ti aspetteresti così particolarmente buono., per non parlare del cocco caramellato...


I bambini....
sono quelli che ti catturano, ti conquistano per sempre, con quei sorrisi, con quegli occhi profondi e scuri. E scatti foto, maree di foto, per poterli portare a casa con te per sempre quegli occhi e quei sorrisi, perchè lo sai che non ti abbandoneranno mai quegli occhi e quei sorrisi....





























infatti, un pezzetto del mio cuore è là, a Nosy Be, con i bimbi della Missione di Santa Teresa del Bambin Gesù, a Hell Ville, capoluogo dell'isola, oltre 600 bambini di ogni età affidati a una dozzina di giovani suore, che garantiscono almeno un pasto quotidiano e una istruzione minima, e ora anche un ambulatorio medico e oftalmico, grazie allo sforzo di tante persone che si sono riunite nell'Associazione Bambini del Madagascar, costituitasi in Italia per mettere in pratica un percorso di solidarietà atto ad aiutare la Missione.
Hanno bisogno di tutto, ma proprio di tutto. Oltre all'adozione a distanza, anche di indumenti, di materiale didattico per la scuola, e soprattutto di medicine...
L'anno scorso abbiamo scelto di fare le vacanze a Nosy Be, per unire la vacanza alla visita ai bimbi adottivi, con le mie amiche Silvana e Manuela, e con parte delle persone che si occupano dell'associazione, e i bimbi ci hanno regalato una giornata davvero speciale, una giornata in cui hanno fatto il saggio di fine anno alla nostra presenza.









































E' stata una cosa indimenticabile, emozionante, commovente..le parole non bastano a descrivere l'emozione e la gioia che ho provato ..una esperienza vissuta con leggerezza e familiarità con loro, che ci hanno accolti con la nostra stessa gioia.
Ho rivisto così Justine, la mia bimba adottiva, un adorabile faccino da monella, che sta crescendo a vista d'occhio e che è molto brava a scuola....














E' stato difficilissimo tornare a casa, il cuore era pesante, a volte lo è tuttora, per la lontananza, per la nostalgia di quei volti e di quei sorrisi, di quegli occhi così pieni di curiosità e di gioia.






Mi mancano quei bambini....
Ma il seme è gettato, e un seme cresce, germoglia, e poi si moltiplica....
il seme della solidarietà, dell'amore per il prossimo, e dell'accettazione dell'altro, perchè aiutare gli altri, aiuta noi stessi.