lunedì 31 ottobre 2016

Pan dei morti e altre storie

Ripropongo questo vecchio post dedicato alle  celebrazioni di Ognissanti e alla commemorazione  dei defunti,  perchè oggi il  Calendario del cibo Italiano  progetto a cura  della Associazione Italiana Food Blogger dedicherà la settimana che si apre a questa ricorrenza, e Alessandra Gennaro del blog An Old fashioned lady e Susanna Canetti del blog Afrodita's Kitchen  ne saranno le ambasciatrici. Non perdetevi il loro articolo a riguardo, so che sarà molto interessante leggerlo e conoscere usi, costumi, storie e aneddoti legati a questo periodo.

Il giorno dei morti ci si veste pesante perché l'aria è ormai diventata fredda ed è arrivata la prima nebbia della stagione, si toglie il cappotto da dove era  stato riposto, si spolverano stivali e scarpe adatte e ci si accinge ad affrontare l'inverno imminente.

Il sole che sbiadisce e ci abbandona, i fiori che pian piano si seccano e cadono, il tappeto di foglie rosse e gialle su cui camminiamo, le notti lunghe che iniziano quando è ancora giorno....tutto questo fa pensare alla fatica, al riposo, al sonno, al passato, e il pensiero ritorna su ciò che è stato. 
Così in questa stagione più facilmente si evocano le ombre, si parla con loro.
Il giorno dei morti fiori e lumini riempiono il cimitero di ogni paese con un'aria quasi di festa se non fosse per quelle foto ovali con piccoli volti in bianco e nero di un tempo sparito, che sorridono lontani perché nulla  li può più toccare..
La morte è un tema spesso doloroso e difficile da accettare. Ma lo sappiamo, niente nell'universo intero può resistere al tempo. Tutto ne viene travolto, tutto è destinato a scomparire, a mutare. E' difficile ogni giorno accettare, sopportare la mancanza, il vuoto lasciato da chi non c'è più. 
Nel tempo a volte subentra una sorta di dolore quieto, quasi fatto di struggente tenerezza, ma  il dolore è comunque  sordo,  è muto e  ascolta solo se stesso...non ci sono parole uguali per ognuno di noi,  che possono raccontarlo.
Anche nel giorno dei morti richiamiamo alla mente i nostri cari scomparsi, per rivederli intorno a noi, per offrire loro un fiore, per fare pace, per non dimenticare,  perché sono sempre ben vivi dentro il nostro cuore, la nostra mente, il nostro ricordo.



Vita e morte sono  inevitabilmente legate, e il giorno dei morti ogni casa si riempie di tutte le tradizioni per continuare a mantenere forti legami con i propri defunti e
antiche usanze vivono in tutto il nostro Paese.
Io sono nata in Friuli  dove sono rimasta per tutto il primo anno di vita,  e poi mi sono trasferita a Milano con i miei genitori, dove sono cresciuta, dopo una parentesi di qualche anno sulle montagne comasche.  Grazie alla mia famiglia ho assimilato sia le  tradizioni lombarde che quelle friulane e le usanze di entrambe le regioni fanno parte della mia vita da che ho memoria.
A Milano, ma generalmente in tutta la Lombardia, il dolce tradizionale di questo periodo è il Pan dei Morti.
Cuocerlo  significa avere la casa a lungo  profumata  di spezie, un profumo che mi fa tornare bambina, quando il pan dei morti si comprava in panetteria. Ognuna ne aveva sempre un bel vassoio pronto sul banco e il suo profumo si sentiva fin sulla strada, si spandeva per la via solleticando le narici e facendo venire la voglia irrefrenabile di addentarne uno, bello morbido e fondente, e di riempirsi il viso  di  zucchero a velo..
La signora Luisa, la panettiera  quasi all'angolo di Via Marghera  dove passavo tutte le mattine per andare a scuola,   mi conosceva bene ormai, ogni giorno entravo a comprare la merenda da mettere in cartella....a volte la mantovana, una specie di pasta brioche tutta bitorzoluta,  asciutta che più asciutta non si può,  altre volte la veneziana, con la granella di mandorle e zucchero sopra, oppure, altre volte ancora, le peschine con la marmellata  belle rosse di Alchermes e,  in questo periodo, il pan dei morti...
....questo profumo di spezie che aleggia per casa, mi fa ricordare la  sciura Luisa, un donnone giunonico  bonario e gentile, dagli occhi più azzurri che ho visto in vita mia, piazzata sempre dietro al bancone del negozio, dopo la notte passata a sfornare pane in quantità....

entravo nel negozio insieme a frotte di altri bambini,  con un misto di soggezione e timidezza, sceglievo la mia merenda, tiravo fuori le monete che mi dava mamma per pagare e me ne andavo col mio pan dei morti in mano, avvolto in un minuscolo foglio di  carta velina beige,  accompagnata dal suo sguardo azzurro e intenso fin sul marciapiede...lo sentivo quello sguardo, come se fosse appiccicato sulla schiena...
poi, nell'ultimo pezzo di strada che mi divideva dalla scuola, non resistevo a quel profumo di cannella e ne sbocconcellavo golosamente  qualche pezzetto camminando... ne è passato parecchio di tempo da allora, ma il sapore di quel pan dei morti della Luisa, me lo ricordo ancora molto bene.... 

Invece in Friuli, mio nonno prima   e mio padre dopo di lui,  prima di andare a letto, il giorno dei morti lasciavano la luce accesa sotto il portico, un secchio d'acqua e del pane sulla tavola cosicché i defunti potessero trovare luce e cibo per ristorarsi durante il pellegrinaggio notturno verso le chiese e i santuari.
Si dice che in quella notte i defunti tornino a noi vestiti di bianco, e che chi entra in quelle chiese e in quei santuari le troverà affollate da una moltitudine di persone che non sono più in vita e che scomparirà all'alba, al  primo canto del gallo.
E guai a guardar fuori dalla finestra...ci potevano essere i morti chiamati dall'insistente e prolungato suono delle campane, a spiare noi vivi.
Ogni famiglia prepara i dolci dei morti....a casa mia delle semplici caldarroste, con un bicchiere di vino rosso...e un goccio non si negava anche ai bambini..
Su per le montagne invece , hanno da sempre fatto rivivere anche le antichissime tradizioni pagane e ancora oggi si fa la rievocazione storica del capodanno celtico, quando si pensava che in questa notte i defunti tornassero accompagnati dal piccolo popolo degli elfi, (gli sbilfs) delle streghe (lis striis) e delle fate (lis aganis) per visitare i luoghi in cui avevano vissuto. La gente va per le strade del paese con le zucche intagliate come maschere spaventose, illuminate dalle candele...
Intagliare le zucche per usarle come lumi non è solo una usanza americana, è presente da noi da secoli...
Ricordo quelle notti fredde, le processioni lungo le strade del paese, la polenta bianca, calda fumante , di mia nonna, il muset con la brovada, il riunirsi tutti intorno alla grande tavola insieme a parenti ed amici, a chiacchierare e a mangiare le castagne man mano che mio padre le cuoceva sulla stufa a legna, fra un bicchiere di Merlot e un bicchierino di grappa, e poi, prima di andare a letto, la tavola apparecchiata con tutto  quello che avevamo preparato, le caldarroste, il vino, il pane, l'acqua.
Mio padre usciva sotto il portico, accendeva la luce, rientrava e chiudeva le porte a doppia mandata...
Il giorno dopo era tutto come l'avevamo lasciato, ma ogni anno, alla stessa ricorrenza, erano gli stessi gesti, lo stesso sentire...Come a non voler spezzare quel legame col mondo dei più..
Ogni volta, la mattina dopo,  osservavo la tavola e poi guardavo mio padre ... Perchè è ancora tutto lì dove lo abbiamo lasciato, gli chiedevo muta... lui  mi guardava sorridendo sornione  e scambiava uno sguardo complice con mia nonna, si alzava dalla sedia e mi diceva: Dai, sparecchiamo e non preoccuparti, sono venuti ma   non avevano fame...probabilmente hanno mangiato a casa della zia Norina. Solo qualche anno dopo, ho capito. 
 









Ecco la ricetta del  Pan dei Morti, di tradizione lombarda.


PAN DEI MORTI

200 gr di rimasugli o briciolame di biscotti secchi
120 gr farina
150 gr zucchero semolato
3 cucchiai rasi di cacao amaro
100gr uvetta
50 gr mandorle pelate
50 gr pinoli
50 gr ciliegie candite
2 fichi secchi (facoltativo)
mezzo cucchiaino di lievito per torte
1 cucchiaio raso di cannella in polvere
1 cucchiaino di chiodo di garofano macinato
mezzo cucchiaino di noce moscata
un pizzico di sale
vino bianco q.b. (o del Vinsanto)
1 albume



Ammorbidite l'uvetta in un goccio di acqua calda mista a poco vino bianco, unite anche i fichi secchi ridotti a pezzetti, se decidete di metterli.
Nel mixer tritate i biscotti, raccoglieteli in una terrina e aggiungere la farina, lo zucchero, le mandorle tritate non troppo fini, i pinoli, le ciliegie tritate anch'esse grossolanamente, il lievito, il cacao, le spezie e infine l'uvetta scolata e strizzata e il pizzico di sale.
A questo punto aggiungete i liquidi, l'albume appena appena sbattuto, giusto per scioglierlo un pochino, e infine il vino bianco. Versate il vino poco alla volta, e regolatevi con la quantità in modo che l'impasto risulti abbastanza  compatto e solido, da lavorare con le mani, alla fine deve risultare una specie di palla compatta e liscia.
Scaldate il forno a 180° ventilato e foderate una teglia con carta forno.
Con l'impasto fate una specie di salsicciotti di 6/7 cm di diametro, tagliateli in pezzi di circa 4 cm, appiattiteli leggermente con le mani inumidite, in modo da ricavare una forma allungata ovoidale, alta poco meno di 1 cm.
Adagiateli in file sfalzate sulla teglia foderata, tenendo conto che un poco si gonfiano, distanziandoli abbastanza regolarmente.
Cuocete a 180° per 15 minuti, in funzione ventilata, si formeranno delle crepe, è normale. A questo punto abbassate a 160° la temperatura, cambiando la funzione da ventilato a statico, e tenendo un poco aperto il forno mettendo un cucchiaio di legno nello sportello (come si fa a volte con le meringhe) quindi continuate la cottura per altri 20/ 25  minuti. Devono essere morbidi e fondenti all'interno..
Lasciate che si raffreddino poi spolverate abbondantemente con lo zucchero a velo. 

Sulla tavola, insieme a un vassoio di Pan dei Morti, io aggiungo  anche qualche caldarrosta accompagnata da un buon bicchiere di vino rosso. E' il mio modo di fondere le tradizioni e di ricordare le persone a me care  che non ci sono più.


 


Ed è  anche il mio contributo a questa giornata dedicata alla commemorazione dei defunti da parte del Calendario del Cibo Italiano.











Gnocchi di zucca a modo mio


Zucca barucca, barucca calda! È Canocchia ad urlare per attirare gli avventori nella seconda scena del primo atto de Le baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni, e  così la fetta di zucca barucca calda offerta da Toffolo – detto Marmottina – a Lucietta, promessa sposa al pescatore Titta-Nane, scatena le baruffe che imperversano per tutta la commedia veneziana. Perché a Venezia la zucca si vendeva a fette, calda, appena uscita dal forno. Ed era proprio la zucca barucca la varietà locale che si trovava in giro in  osterie e  calli. O meglio, la suca baruca, per dirla alla veneta. Suca baruca è in effetti il nome dialettale della zucca marina di Chioggia, che  nel tempo è diventato zucca barucca. Un nome facile, simpatico, che strappa sempre istintivamente un sorriso.  Una zucca dall’aria un po’ scontrosa, con quelle sue coste bitorzolute che ricordano molto il viso di vecchie streghe. Non per nulla una delle ipotesi relative al suo nome deriva proprio dall’assonanza fra verruca e barucca. Verruca deriva dal latino veruca, che significa, appunto, escrescenza. Ma ci potrebbe essere anche un’altra strada, che porta alla tradizione ebraica, a quel baruch che significa santo, quasi a santificare la capacità della zucca di sfamare i contadini nel difficile periodo invernale.
Zucca del tipo a turbante, di forma rotondeggiante e dimensioni spesso importanti,  alcuni esemplari possono arrivare a pesare anche oltre i 5 kg. La buccia è piena di bitorzoli e di colore grigio-verde. La polpa è di un bel giallo carico tendente all’arancione, soda, densa.

Zucca barucca, oggi è il tuo giorno! 

Il Calendario del Cibo Italiano,  progetto della Associazione Italiana Food Blogger oggi dedica questa giornata a questo coloratissimo ortaggio dalle origini lontanissime e ancora non del tutto certe.
Forse furono gli Etruschi a coltivarle, o forse prima di loro i  Fenici, chi lo sa... Sabrina del blog Architettando in cucina potrà forse svelarci il mistero raccontandoci  tutte le notizie, gli aneddoti, le informazioni che riguardano  la zucca. Potrete scoprire tutto  leggendo il suo articolo!

Io invece  so che è un ortaggio che non ho mai amato particolarmente, troppo dolce per i miei gusti,  infatti  la troverete in poche delle mie ricette, ma  invecchiando  anche i gusti invecchiano, o cambiano, si abituano a certi sapori e  a volte arrivano ad apprezzarli persino.  Come in questo caso, con questa preparazione che è il mio contributo al Calendario di oggi.




La ricetta che ho usato  per  l'impasto degli gnocchi veri e propri è di una cara amica, Bruna Cipriani che ha un bellissmo blog che si chiama Tentazioni di gusto. Lei è una fuoriclasse e in cucina è una vera Maestra.


Gnocchi di zucca, roux alla noce moscata e ricotta affumicata.

per 4 persone

per l'impasto degli gnocchi:
1,5 kg  zucca matura ( 750 g circa di polpa cotta)
gr. 350 farina 00
2 uova 
2 cucchiai colmi di parmigiano grattugiato
poca noce moscata
un pizzico di sale


per il roux:
20 g burro
20 g farina
250/280 cc  latte
un  grosso pizzico di noce moscata
un pizzico di sale


per completare:
una grossa  noce di burro
1 spicchio d'aglio
1 ciuffetto di foglie di salvia

abbondante ricotta affumicata grattugiata

 
Pulite la zucca da semi e filamenti, tagliatela a spicchi non troppo spessi e adagiateli in una teglia foderata di alluminio, copriteli con altrettanto alluminio e  mettete tutto in forno a 180° finchè al tatto la zucca è perfettamente morbida e cotta. Ci vorranno 30 o 40 minuti, dipende da quanto saranno spesse le fette.
Toglietela dal forno,  eliminate la scorza, lasciatela intiepidire quindi premetela con le mani per eliminare l' eventuale  liquido che può essere ancora prsente. Passatela al passaverdura o allo schiacciapatate e controllate che la purea sia bene asciutta, altrimenti mettetela qualche minuto in tegame su fuoco allegro, mescolando, finché vi sembra abbastanza asciutta. 
Trasferite la purea in una ciotola, lasciate raffreddare quindi unite le uova, il sale, la noce moscata, la farina e il parmigiano e mescolate fino ad ottenere un impasto morbido ed omogeneo.
Mettete tutto in una sac à poche e tenete da parte,

Preparate il Roux.
In una piccola casseruola fate fondere il burro, unite la farina e lasciatela tostare fino ad avere un roux biondo, aggiungete il latte mescolando velocemente con la frusta. Versatelo   poco per volta, fino a che arriverete ad avere una salsa morbida e fluida. La quantità  di latte negli ingredienti è indicativa, regolatevi ad occhio man mano che aggiungete. Quando vi sembra abbastanza fluida, liscia e omogenea, è pronta, dovrà essere praticamente una besciamella  un po' più liquida.
Regolate di sale e aggiungete un pizzico di noce moscata. Tenete in caldo, coperta a contatto con un poco di pellicola.

Ora fondete il burro insieme allo spicchio d'aglio e al ciuffetto di salvia, fate che si brunisca leggermente.

In una capace pentola portate a bollore dell'acqua, salate e poi  prendete la sac à poche con l'impasto di  zucca e tagliatele  la punta alla misura che ritenete adatta a formare gli gnocchi, poi, armate di un coltello, spremete la sac à poche sulla pentola in leggera ebollizione, tagliando man mano l'impasto  che ne esce e formando gli gnocchi. Inumidite il coltello nell'acqua  ad ogni taglio, così non avrete problemi, l'impasto non gli si appiccicherà.



Lasciateli cadere nell'acqua bollente e aspettate che tornino a galla. 
Prelevateli con la schiumarola e adagiateli nel piatti dove avrete prima  messo un leggero strato di roux, condite con un cucchiaio del burro che avete  fuso e completate con una generosa grattugiata di ricotta affumicata.
Sarà il tocco che smorzerà il gusto dolce della zucca, in un connubio perfetto.







Buon appetito!!







 








 
 



mercoledì 26 ottobre 2016

Bunet alle nocciole

Oggi, per il Calendario del Cibo Italiano   sempre in riferimento al progetto della Associazione Italiana Food Blogger è la giornata dedicata alla Nocciola Tonda Gentile  del Piemonte.
A raccontarci tutto quello che la riguarda sarà  Fausta  del blog Caffè col Cioccolato quindi non perdetevi il suo articolo perchè sarà molto interessante.
Amo molto le nocciole,  le uso spesso in cucina, sia nel dolce che nel salato,  in particolare quelle del Piemonte. Non so se vi è mai capitato di andare nelle Langhe. Si gode di un paesaggio meraviglioso, colline coperte, tappezzate di vigneti e di piantagioni di alberi di nocciole. Un colpo d'occhio davvero unico!
Quando mi capita di andarci,non manco mai di comprare le nocciole, e molto altro a dire il vero....quelle zone offrono tantissime specialità, per non parlare del vino...

Il mio contributo a questa giornata è una variante di un classico piemontese, il  Bonet, o il Bunet come si dice in quelle zone. Un dolce meraviglioso, se amate caffè e amaretti. Io ve lo propongo con le nocciole, e ve lo consiglio caldamente. Avevo trovato questa ricetta anni fa su Sale & Pepe  e mi ha conquistato.
E' di una facilità disarmante, si fa in un attimo, basta avere attenzione per la cottura  ed è sempre bene farlo la sera prima per dargli il tempo di assestare i sapori e di compattarsi bene.







BONET  (O BUNET) ALLE NOCCIOLE
(da Sale e Pepe)

1/2 litro  latte intero
100 g nocciola Tonda Gentile delle Langhe (tostate)
100 g zucchero 
50 g zucchero per il caramello
3 cucchiai caffè ristretto
3 cucchiai Rhum
60 gr amaretti secchi
4 uova
2 tuorli


Preparate il caramello con 50 gr di zucchero e un cucchiaio d'acqua.
Una volta pronto, caramellate uno stampo da plumcake da 1 litro e lasciate raffreddare.
Tritate finemente le nocciole tostate con un cucchiaio di zucchero, fino quasi a farle diventare pasta, facendo però attenzione che non si surriscaldino troppo,  quindi fatelo azionando il  cutter ad intermittenza.
Tritate  bene gli amaretti fino a ridurli in una  polvere abbastanza fine, non devono esserci pezzi più grossi.
Portate il latte a ebollizione, una volta caldo, unite i 100 grammi di zucchero e mescolate  per farlo sciogliere completamente.
In una ciotola sbattete le uova e i tuorli senza incorporare aria,  quando sono ben amalgamati, aggiungete gli amaretti, le nocciole tritate, il caffè molto ristretto e il liquore.
Mescolate di nuovo con la frusta in modo che tutto sia perfettamente liscio e amalgamato, soprattutto il trito di nocciole. Dovrete avere un composto senza nessun tipo di grumi.
Versate il latte caldo sul composto, date una ulteriore mescolata  e tasferitelo nello stampo caramellato ormai freddo.
Cuocet e a bagnomaria a 170° controllando che l'acqua del bagno non vada mai in ebollizione, e che arrivi a metà dello stampo.
Col mio forno ci sono voluti un po' di più  di 50 minuti. E' comunque  pronto quando è resistente al tatto.
Toglietelo dal forno e lasciatelo raffreddare nel suo bagnomaria, quindi mettetelo in frigorifero fino al momento di servire.
Sformatelo in un piatto che possa contenere anche il suo caramello.

Semplice no?  Provatelo!






martedì 25 ottobre 2016

Vitello(ne) cuor di rognone




Vitello(ne) cuor di rognone, crema di topinambur e salsa all'arancia
per il Master MTChallenge Alta Cucina e Salute

quante "prime volte" posso aver vissuto in vita mia? Tantissime di sicuro, ma ne ricordo poche così  ansiogene eppure  tanto  emozionanti e  divertenti  come questo  Master MT Challenge a cui partecipo.

Tema del Master:   come preparare ricette che in cottura non pregiudichino la presenza della vitamina B12, conservando anche sapore e rendendo appetibili i piatti.
Cotture dolci, quindi, perchè questa vitamina è  estremamente  idrosolubile e non sopporta temperature superiori ai 160 °C.  
La  vitamina B 12 è presente solo in alimenti di origine animale, pertanto completamente assente nelle diete vegetariane o vegane, ragion per cui chi pratica questo tipo di alimentazione ha necessità di integrare la propria dieta con questa vitamina, appunto per evitare  carenze che potrebbero avere conseguenze gravi per l'organismo.
Queste le regole e, di qui, la sfida con noi stessi.
E a chi poteva venire in mente un Master di questa importanza se non a lei, Alessandra Gennaro ? Instancabile  motore propulsivo, testa pensante e ideatrice di  MTChallenge,  lei,  formidabile anche  nel creare  bellissimi e azzeccatissimi calambour come quello che identifica questo Master:   Il lato B12 dell'Alta Cucina.





iimaster

Il gruppo dei partecipanti,  alla fine, prende il via compatto in 17,  tutti amorevolmente, pazientemente, generosamente seguiti da persone che dire speciali è riduttivo:  il dottor Michael Meyers, oncologo di fama internazionale, e  la dottoressa Arianna Mazzetta, biologa e nutrizionista, i quali ci hanno fornito dispense  su tutto quello che riguarda la Vitamina B12, le sue funzioni, le sue carenze, i cibi in cui è maggiormente contenuta.
A loro si è unito Sandro Sità, Chef all'Hotel Tarabella di Forte dei Marmi, che ci ha messo a disposizione una  dettagliata dispensa sulle regole dell'impiattamento,  poi  si è letto attentamente le nostre ricette, ha  commentato e dato consigli a ciascuno su come deve essere un piatto per poter dire che è Alta Cucina.
Praticamente una specie di Bibbia per me, che mi terrò in evidenza dato che conosco bene i miei limiti.
Chi giudicherà i nostri lavori sarà un giudice d'eccezione Marco Visciola, Chef da Il Marin - Eataly al Porto Antico di Genova, valuterà e deciderà chi sarà a vincere questo Master.
Di mio posso dire che vincere non è  poi così importante,  è già una  bella soddisfazione  potersi cimentare in una prova come questa, mettersi in gioco per capire quanta padronanza si ha veramente delle tecniche, degli ingredienti, quanto sappiamo su come si cucina per mangiare sano, e bello ancora di più il confronto con tutti gli altri partecipanti, in uno spirito di condivisione, di collaborazione, di aiuto che non è facile da incontrare. Momenti di breefing virtuali, momenti di crisi, momenti di puro divertimento, e anche momenti di ansia in attesa del verdetto dei tutors sul piatto pensato da ognuno di noi.  La domanda fissa: sarà preservata la Benedetta 12? Giusto per citare una amica blogger...

Scrivo la ricetta che ho deciso di fare.  Potevo scegliere che so, il salmone, o le vongole? Eh no, dato che mi complico sempre la vita, mi son  fissata sul rognone. Che a dire la verità mangio rarissime volte, ma che cucino spesso per mio marito che a differenza mia, da lombardo doc, lo adora. E posso dire che ha apprezzato parecchio anche  questa volta,  un po' sorpreso di non trovarselo davanti trifolato come preferisce di solito.


Vitello(ne) cuor di rognone

per 4/5 persone
(calcolandone tre fette a testa non troppo spesse)

Per l'arrosto:
600 g  circa  carne di vitello  preparata in una larga fetta
(in questo caso una parte che qui si chiama Fascetta, ricavata dalla spalla dell'animale)
mezzo rognone di vitello (tagliato longitudinalmente) quello usato pesava poco meno di 300 g
la scorza di una arancia non trattata, grattugiata
1 ciuffo di prezzemolo
1 spicchietto d'aglio
sale, pepe
olio e.v. d'oliva q.b.
1 rametto di rosmarino
mezzo bicchiere di vino bianco
mezzo bicchiere di Vin Santo
poco brodo (facoltativo)

per la crema di topinambur:
500 g topinambur (una vaschetta)
una noce di burro
sale, pepe bianco
poco latte

per la salsa all'arancia:
il succo di una arancia non trattata
50 g vino bianco
una noce di burro

per completare il piatto:
la scorza di una arancia non trattata
il verde di due piccole zucchine


Per prima cosa preparate il rognone. Ovviamente se ne dovrà acquistare uno intero che poi andrà tagliato a metà longitudinalmente.  Se ne userà una sola parte, l'altra si potrà cucinare in altro modo o congelare.
Una volta tagliato il rognone  eliminate il più possibile, aiutandovi con un coltellino affilato, la parte bianca all'interno della metà che si intende usare.
Fatta questa operazione mettete a bagno il mezzo rognone   in una ciotola sotto un filo di acqua corrente, per circa mezz'ora, in modo che si possa spurgare da eventuale sangue e che possa perdere un po' del suo caratteristico odore.
Nel frattempo stendete la fetta di carne, che sarà opportunamente stata preparata dal macellaio di fiducia,  su un tagliere da cucina,  se fosse ancora un po' troppo spessa, appiattitela bene con leggeri colpi di batticarne. Controllate che il rognone possa essere contenuto dentro la fetta, quindi pareggiatene i bordi in modo da non avere carne in eccesso e ricavate una forma rettangolare non troppo grande.
Scolate il rognone dall'acqua e dopo averlo tamponato leggermente con carta da cucina,  passatelo in un'altra ciotola con il Vin Santo, lasciate marinare per circa 15 minuti al massimo.
Tritate finemente il prezzemolo insieme allo spicchietto d'aglio, metà  se può dare fastidio il suo sapore.
Trascorso il tempo della marinatura, togliete il rognone dal bagno nel Vinsanto, asciugatelo bene e riempite la cavità rimasta dopo aver eliminato il sego bianco dell'interno, con il trito di prezzemolo e aglio.
Sulla fetta di carne ben stesa e parata, grattugiate direttamente la scorza d'arancia in modo che il trito si distribuisca in maniera omogenea, salate e pepate, quindi appoggiatevi il rognone,  seguendo il "filo" della carne,  il verso in cui vanno le fibre, in modo che poi al taglio non si rovini. Arrotolate strettamente e legate con spago da cucina altrettanto strettamente.
In una casseruola, un tegame che lo contenta di misura, fondete una noce di burro insieme ad un goccio d'olio e.v. d'oliva, fate rosolare l'arrosto preparato da tutti i lati, profumate con un rametto di rosmarino, sfumate con il vino bianco, salate e pepate. Una volta evaporato il vino aggiungete poca acqua calda o, se l'avete, del brodo, infilate il termometro da arrosti nel centro della carne in modo che arrivi al cuore, e infornate in forno giò caldo a 130°/140°  funzione statica. Ogni tanto controllate che il fondo non si asciughi troppo, e rigiratelo. E' pronto quando il termometro dice che la temperatura al cuore è a 65°. Col mio forno, e per quel peso, ci è voluta quasi  un'ora e tre quarti, ma ogni forno cuoce in maniera diversa, per cui in questo caso fidatevi esclusivamente del termometro.
Toglietelo dal forno e tenetelo in caldo.

Mentre l'arrosto cuoce,  spelate i topinambur, lavateli asciugateli, tagliateli a fettine sottili.
Fateli stufare in una larga padella con una noce abbondante di burro, sale e una macinata di pepe. Tenete il fuoco dolce, poi, una volta insaporiti, aggiungete mezzo bicchiere di latte e lasciate cuocere pian piano. Eventualmente, in cottura, aggiungete altro latte se si asciugasse troppo il loro fondo. Alla fine dovranno essere morbidi, e abbastanza asciutti.
Frullate tutto col minipimer in modo da avere un delicato puré. Assaggiate e  se necessario regolate di sale, trasferitelo in una sac à poche con la bocchetta liscia e tenete in caldo.

Ricavate dalle zucchine  solo la parte verde, tagliatela a bastoncini. Portate a ebollizione dell'acqua, salatela e tuffatevi i bastoncini di zucchine, lasciateli bollire un paio di minuti dopodichè scolateli tuffandoli in acqua fredda a cui avrete aggiunto cubetti di ghiaccio in modo che raffreddandosi possano conservare il loro colore verde brillante.
Passate alle scorze d'arancia. Prelevate la scorza  ad una arancia non trattata, incidendola a spicchi. Con un coltellino affilato eliminate il più possibile l'albedo.
Portate a ebollizione dell'acqua, immergetevi le scorze intere e fate bollire un minuto o due, quindi scolate e ripetete l'operazione per un  alro paio di volte. Poi riducete le scorze intere in striscioline sottili. Tenete tutto  da parte.

Poco prima di servire preparate la salsa all'arancia.
In un pentolino mettete il succo di una arancia, filtrato e il vino bianco. Ponetelo su fuoco dolce e lasciatelo ridurre della metà.  Aggiungete una noce di burro freddissimo e, fuori dal fuoco, fate sciogliere completamente il burro roteando il pentolino, la differenza di temperatura fra il burro e il liquido, ispessirà la salsa.

Riprendete l'arrosto che avete tenuto in caldo.  Tagliatelo a fette di spessore medio.

Preparate il piatto. Io ne ho usato uno quadtrato abbastanza grande

Fate una specie di nido con le scorzette e le zucchine, calcolatene tre, tenendoli separati. Su ogni nido ponete un medaglione di arrosto.   Con un cucchiaio contornate ogni medaglione con un velo di salsa all'arancia.
Riempite lo spazio fra la carne spremendo il puré di topinambur con la sac à poche.
Servite subito.


P.S. - Ho preferito non nappare direttamente  la carne con la salsa all'arancia, per evitare di danneggiare la B12, anche se i tutor mi avevano rassicurato, e il secondo motivo è stato per lasciare che si vedesse bene  la fetta in sezione.



A conclusione di questa bellissima esperienza voglio ringraziare i nostri Tutors, sempre disponibili, pazienti e generosi in consigli e pareri, e per il tempo  prezioso che ci hanno dedicato dato gli impegni di ognuno.
Ringrazio Alessandra Gennaro per avermi dato la possibilità di partecipare a questo Master così importante e per certi versi impegnativo
E un grazie altrettanto sentito a tutti i miei compagni di strada, è stato bellissimo condividere idee, consigli, battute, ansie e paure. Un bellissimo momento di condivisione che ha contribuito a farci conoscere e  a rafforzare lo spirito di appartenenza a una gran bella Community qual è MTChallenge.

So che ci siamo impegnati tutti a fondo e che il risultato sarà veramente Alta Cucina. 

E sono sicura che tutti noi faremo  la Ola per  chiunque vinca,   perchè  insieme siamo tutti vincitori  in questo Master.


E ora riprendiamo il viaggio insieme...


 



giovedì 13 ottobre 2016

Il filo della memoria

la sfida di Ottobre  di MTChallenge  è tutta dedicata  alle tapas,  argomento scelto da Mai Esteve, catalana doc, del blog Il colore della curcuma  vincitrice indiscussa di quella relativa agli gnocchi, il mio battesimo in MTC.
Però si fa presto a dire tapas, mica è abbastanza per definire quello che rientra in questa piccola parolina.
Grazie a Mai ho scoperto che  "tapa" può essere qualcosa di avanzato,( una frittata, una minestra, uno spezzatino) e  che si mangia nel piatto, oppure una piccola fetta di pane con sopra laqualunque, e allora diventa "montadito", mentre tutto quello che si infilza con uno stecchino per mangiarselo in un boccone è il "pincho".
E fin qui, ci siamo. Facile? Mica tanto, ....lassù qualcuno ci ama e ha stabilito che la sfida a colpi di "tapas" deve essere qualcosa che  arriva da una idea precisa, da un argomento,  da un percorso  da sviluppare e ritrovare in ognuna delle forme di tapas  che ho descritto...

Io sono in quel periodo della vita in cui è abbastanza frequente guardarsi indietro, ripensare a tutto quello che è il proprio vissuto, alle tempeste e alle bonacce attraversate, alle persone care,  a quelle conosciute che hanno diviso  o dividono con te la vita, agli amici persi, rimasti, ritrovati,  a quelle che comunque  ti hanno lasciato qualcosa di sé, nel bene e nel male, a chi ti ha accompagnato per un breve pezzetto di strada,  a quelle anche solo sfiorate per qualche momento, ma che lo stesso  hai ben presente. Da ognuna di loro ho avuto  qualcosa che ha contribuito a farmi diventare quella che sono e questo mi fa venire in mente una frase di un libro, Treno di notte per Lisbona che  rispecchia molto bene quello che ho appena scritto.
"Lasciamo sempre qualcosa di noi quando ce ne andiamo da un posto, rimaniamo lì anche una volta andati via, e ci sono cose di noi che possiamo ritrovare solo tornando in quei luoghi. Viaggiamo dentro noi stessi quando andiamo in posti che hanno fatto da cornice a periodi della nostra vita, non importa quanto questi siano stati brevi."



E allora il mio percorso con le tapas sarà come un  filo che lega alcuni momenti della mia vita ad alcune persone  e  ai  ricordi legati ad esse e alle mie radici friulane che man mano passa il tempo, scopro sempre più profonde.... passerò dalle nacchere a lis dalminis e dai sombreros alla   farsora.



 Il filo della memoria




Il Frico, originario della Carnia, è forse  il piatto  più  conosciuto e rappresentativo del Friuli, unica regione italiana dove lo si prepara. Ha origini lontane,  la prima ricetta scritta con il nome di “Caso in Patellecte”viene riportata nel “Libro de Arte Coquinaria” di Maestro Martino, cuoco del Patriarca di Aquileia, Bertrando di San Genesio.
Nella tradizione della montagna, il frico croccante, insieme alla polenta fredda (ben soda) era cibo tradizionale che i boscaioli potevano trasportare negli zaini. Piatto  per stomaci robusti dunque, mentre  in pianura era anche destinato alla colazione del mattino, soprattutto d'estate, in tempo di fienagione.
Per me era  la merenda.... mia nonna materna, Giovanna, una donnina piccina, sempre vestita con abiti scuri lunghi fino alle caviglie, con perennemente  in testa il classico "fazzoletto" nero annodato all' antica  maniera friulana , era una nonna un po' atipica,  sui generis,  non amava tanto le smancerie, o le troppe parole, era anche un po' controcorrente, le piaceva il tabacco da fiuto, e ne portava sempre in tasca, dentro a una  scatoletta di osso.
Durante  mie vacanze in Fruli  stavo con la mia nonna paterna, ma per qualche settimana mi trasferivo al paese di mia madre, una ventina di chilometri più in giù, nella bassa friulana, nelle zone  raccontate da Ippolito Nievo,  per stare con la nonna Giovanna, a casa di   mia zia e dei  miei 5 cugini. Erano giorni totalmente vissuti allo stato brado a contatto con la natura e negli spazi aperti,    credo siano state le mie estati più belle, in quella età di passaggio che è l'adolescenza... la casa era isolata, in mezzo alla campagna e alle vigne e  con i miei cugini  facevamo lunghe passeggiate nei campi mangiucchiando la frutta che ci capitava a tiro,  oppure andavamo al fiume a fare il bagno, o a pescare e poi ci arrampicavamo su un grande, maestoso platano, dove stavamo per ore, appollaiati  sui grossi rami, a dominare  dall'alto la campagna e a perdere lo sguardo   fin sotto le montagne, aspettando i rintocchi delle campane sui campanili sparsi nella pianura. 
Ma quando era ora di merenda eravamo sempre a casa puntuali. Mia nonna  non preparava torte, prediligeva il salato, e allora trovavi sulla tavole uova al tegamino, o un pezzo di frittata fredda, e quando proprio voleva coccolarci ci preparava il frico al momento, che va mangiato caldissimo, ed allora sì che era festa!! Ce lo litigavamo sempre, non ci bastava mai....e nascevano dispute feroci  su chi ne aveva avuto di più....Quanto ridevamo poi! E quanto ridiamo ancora adesso quando ricordiamo quei momenti!  E ricordiamo lei, una piccola donna vestita di nero, che  odorava sempre di tabacco.

Frico
 per  due persone:
1 patata
1  piccola cipolla
150 g formaggio Montasio semi stagionato
poco sale, poco olio
abbondante pepe nero macinato al momento

In una padella antiaderente  tonda da 25 cm. scaldate un goccio d'olio, aggiungete le  cipolle e lasciatele stufare un poco, controllando che non prendano colore, quindi aggiungete le patate tagliate a pezzetti sottili, salate, e lasciate che prendano calore, mescolate spesso in modo che non attacchino e non si dorino troppo.


Portate a cottura, dopodichè, con una forchetta, schiacciate bene tutto, e  compattatelo in uno strato uniforme.
Tagliate il formaggio a pezzetti sottili, aggiungetelo sopra le patate, lasciate che prenda calore poi mescolate perchè si distribuisca bene. Il formaggio fonderà. Lasciate cuocere finché  sotto  farà una bella crosticina,

 e allora con un mestolo piatto o una paletta iniziate a staccarlo dal fondo, pian piano iniziando tutto intorno ai bordi, finché scuotendo la padella lo vedrete muoversi senza problemi.
A questo punto prendete un coperchio piatto, della stessa misura della padella, coprite e facendo molta, molta attenzione a non scottarvi, inclinate un poco la padella,   tenendo stretto il coperchio,  sopra il lavandino per lasciar colare via il grasso in eccesso che il formaggio avrà rilasciato, e girate il frico come fosse una frittata, rimettendolo della padella a dorarsi sul fuoco dall'altro lato.
Ci vorranno un paio di minuti. poi toglietelo e fatelo scivolare su un piatto caldo, spolverizzate di abbondante pepe nero macinato al momento e servitelo ben caldo!
Per questa ricetta tipica ci vorrebbe il formaggio apposito che si usa in Friuli,  un po' più fresco di quello che ho usato io, ma il frico riesce sempre e comunque...





La brovada e il muset, un altro dei piatti della cucina contadina friulana, dove  anche le  rape   hanno sempre avuto un loro perchè, e questo la dice lunga sulla povertà che ha caratterizzato quelle terre nel tempo.. Il muset è un cotechino ricco di spezie, fatto con la carne macinata  del muso del maiale, muset appunto.
La brovada non sono altro che rape messe a macerare nelle vinacce dopo la spremitura dell'uva, per circa un mese, e poi estratte, sbucciate e grattugiate, oggi vendute  dappertutto, quando è stagione,  in sacchetti di plastica da chilo.. E' una preparazione tipicamente invernale.
E'  il sapore che mi torna in mente quando penso ai nostri viaggi in   Friuli per "i morti", come diceva mio padre,  ai primi di novembre. Partivamo sempre nel tardo pomeriggio  del venerdì,  appena finito di lavorare  e dopo quasi 4 ore di viaggio  arrivavamo immancabilmente ad attraversare  paesetti e paesoni, le autostrade ancora non erano così capillari,  sulla Pontebbana mentre puntuale arrivava la processione di Ognissanti,  impossibile evitare di finirci in mezzo e i tempi del viaggio si allungavano a dismisura, tanto che  quando arrivavamo a casa   trovavamo con piacere  il brodo di mia nonna ad accoglierci, e una pentola di brovada già pronta per il pranzo del giorno dopo.
Mio padre ci andava matto per brovada e muset e quando era in tavola, con una buona dose di polenta,  lui se la gustava in religioso silenzio,  assaporando  a lungo ogni boccone, come a fissarne in testa il sapore. Neanche fosse un piatto da ristorante stellato.  Non è sicuramente un gusto facile, non ha mezze misure, o la ami, o la detesti.
Io, come mio padre, la amo moltissimo, e appena ne ho l'occasione la compro e  faccio in modo di averne sempre in congelatore, col  muset. E quando la cucino ne respiro il profumo, forte e deciso, e l'immagine di mio padre torna prepotente a riportarmi a quei momenti di religioso silenzio.
Questo è  per lui, uomo retto, forte della sua identità contadina, ma al tempo stesso colto, preparato e intelligente. Fumino e combattivo, si avvelenava davanti alle ingiustizie e ai soprusi  e partiva lancia in resta, pagando  sempre  di persona le conseguenze.

Brovada
1 kg di brovada pronta
1 cipolla
2 foglie di alloro
brodo di carne q.b.
una noce abbondante di burro
poco sale.
1 muset da circa 600 gr
(o un cotechino di buona qualità)

poco pane francese a fette


Mettete a cuocere il cotechino partendo da acqua fredda, in un tegame coperto. Tenete il fuoco basso e lasciatelo andare pian piano per un paio d'ore.
Mentre il cotechino cuoce, preparate la brovada. In un largo tegame fondete una grossa noce di burro, aggiungete la cipolla tritata,  lasciate stufare un paio di minuti quindi scolate la brovada pronta dal sacchetto e aggiungetela nel tegame,  mescolate, allungate con un poco di brodo, aggiungete l'alloro,  salate il tutto e coprite il tegame. 

Portate a cottura mescolando ogni tanto e controllando che il liquido non si asciughi troppo, nel qual caso aggiungete ancora un poco di brodo o di acqua calda.
Una volta che sia il cotechino che la brovada sono pronti, tagliate il pane francese a fette, appoggiate un poco di brovada sulla fetta, quindi  completate col cotechino scolato dal suo brodo e liberato dalla pelle.

E i montaditos sono pronti.

Ovviamente ne avanzerà, ma si mangia sempre con lo stesso cotechino, come buon  secondo, e il giorno dopo è anche più buona....




Polenta, cipolla, e "renga" era una delle cose che più piacevano a mio nonno Basilio, retaggio della sua infanzia, quando intorno a un tavolo, tutta la famiglia patriarcale strusciava un pezzo di polenta su un'unica aringa affumicata posta nel mezzo.
Friuli terra di miseria e di emigrazione, e la polenta, rigorosamente bianca......era la cosa che riempiva le pance e che s'intreccia alla storia sociale del nostro Paese e della sua lunga miseria contadina,  causa  principale di pellagra, con le sue devastanti e abbrutenti conseguenze fisiche e psichiche.
Mio nonno amava raccontare della sua infanzia, molto dura e in tempi lontani, era del 1902, e nascere in quei paese condannati alla miseria era una vera disgrazia. Ma lui me ne faceva un dipinto storico, raccontandomi aneddoti, episodi e avvenimenti,  e insegnandomi, attraverso i suoi ricordi, tutti i gradi di parentela con le persone che bazzicavano la nostra casa.
Mi colpiva molto  quanto la fame  trasparisse da ogni suo racconto, e particolarmente lo struscio della aringa. Quasi vedevo il grande tavolo, illuminato da una fioca luce,  il grande tagliere rotondo della polenta, il momento in cui veniva rovesciato il paiolo e la polenta fumante ricadeva con morbide volute su di esso,   il rito del taglio col filo, prerogativa del mio  bisnonno Paolo,  che ricavava quadrotti tutti uguali, e l'unica, solitaria aringa affumicata in mezzo al tavolo, in un piatto dove a turno tutti i presenti  strusciavano un pezzetto di polenta prima di portarla alla bocca.  Storie di ordinaria miseria di tante zone del Triveneto, durate parecchi anni, ma mio nonno ne ha sempre parlato con un accento di tenerezza nella voce, ricordando di quando era bambino. Questi pinchos sono per lui, sono sicura che apprezzerebbe.

Polenta, cipolla e aringa

3 fette spesse di polenta fredda (per me è bianca ma va bene anche la gialla)
1 aringa affumicata abbastanza grossa
mezza  cipolla rossa di Tropea
4 cucchiaini di sale fino
2 cucchiaini di zucchero
2 cucchiai abbondanti di aceto di mele
2 foglie di alloro
qualche grano di pepe nero
latte q.b.



Per prima cosa pulite l'aringa affumicata,  se  trovate quella dorata, meglio. In ogni caso eliminate la testa, apritela a libro e pulitela dalle interiora e dalle spine più evidenti, lavatela e  tamponatela con della carta da cucina poi mettetela in Tupper che la contenga perfettamente stesa, copritela di latte fresco, aggiungete le foglie di alloro e i grani di pepe, sigillate e mettetela al fresco per 24 ore.
Allo stesso modo, la sera prima, preparate la cipolla rossa. Pulitela, lavatela, asciugatela e tagliatela in due. Sfogliate una metà con delicatezza in modo da non rompere i petali ricavati, eventualmente tagliate a metà quelli più grandi. Il resto della cipolla lo userete in altro modo.
Mettete tutti  i petali di cipolla in una ciotola, spolverateli con due cucchiaini rasi di sale, mescolate, coprite con della pellicola e lasciateli così per circa un'ora. Dopodichè lavateli sciacquandoli perfettamente. Raccoglieteli di nuovo nella ciotola, aggiungete il resto del sale fino, lo zucchero, l'aceto di mele, mescolate bene di nuovo, quindi coprite la ciotola e lasciate anch'essa al fresco per 24 ore.
Poco prima di servire,  grigliate bene le fette di polenta da entrambi i lati, toglietele solo quando sono ben grigliate, al limite della bruciatura. Tagliatele a pezzettoni e tenete da parte.
Prendete l'aringa, scolatela dal latte senza sciacquarla, tamponatela con della carta da cucina e tuffatela, dentro e fuori, in un bagno di acqua bollente acidulata con un cucchiaio di aceto o di vino bianco.
Questo farà in modo che si arricci leggermente ai lati, rivelando le spine sottili, che andranno tolte.
Parate l'aringa e tagliatela a pezzettoni  simili a quelli di polenta.
Riprendete anche le cipolle, ormai marinate, toglietele dalla ciotola, mettetele in un colino e date una veloce risciacquata, asciugatele.
Ora componete i pinchos, a strati, partendo da un pezzetto di polenta grigliata, che farà da base, e proseguendo con un petalo di cipolla marinata e un pezzetto di aringa, e d nuovo così  finchè ci sta con lo stecchino.

Chissà se per Mai sono abbastanza pieni questi pinchos!


Ecco, ho scritto un papiro, chiedo scusa a chi leggerà, spero di non annoiare troppo.











lunedì 3 ottobre 2016

Finto Tiradito peruviano

cos'è il Tiradito? E' un antipasto di pesce crudo,  tipico della cucina peruviana, che risente anche  della influenza giapponese.  Si fa marinare il pesce tagliato tipo carpaccio,  in una emulsione  che si chiama Leche de Tigre, frutto della marinatura del Ceviche, a base di lime, zenzero, aglio, coriandolo e un  peperoncino diabolicamente  piccante,  e che si può trovare in varie versioni...decisamente particolare.
Una cucina complessa quella peruviana, che si differenzia molto fra quella  costeña, e quella Andina. 
Il Perù custodisce un tesoro genetico di inestimabile valore che conta oltre 2.000 specie di pesci e frutti di mare, 2.500 varietà di patate, più di 500 frutti autoctoni, 35 ecotipi di mais, cereali antiossidanti come la quinoa.  E non la conosciamo affatto, o solo per qualche ingrediente...

La mia ispirazione al Tiradito arriva dalla sua  presentazione, un gran piatto con tanti assaggini di pesce, diversi fra loro, appoggiati sopra questa emulsione piccante.
Ma l'uomo di casa non lo  gradisce affato  il piccante, salvo che per gli spaghetti aglio e olio, e non ho mai capito che differenza ci trovi fra quelli e un piatto di spaghetti all'arrabbiata, o di qualsiasi piatto con il peperoncino.   Sempre piccante è! Eppure....va a sapere...
Così evito brontolamenti e quando ne ho voglia, o quando ci vuole, lo metto solo nel mio piatto.
E allora, questo  pseudo Tiradito diventa una versione tutta mia personale, complice un vasetto di pasta di tamarindo che mi ero comprata in un attacco compulsivo di acquisti di articoli esotici...



 Finto Tiradito peruviano

 
per 2 persone

per il brodetto:
300 ml di fumetto di pesce
1 pezzetto di zenzero grattugiato (circa 1,5/2 cm)
il succo di 1 lime
1 cucchiaino di pasta di tamarindo
sale, pepe
 peperoncino fresco, se lo gradite.


 pesce:
1 fetta di tonno fresco abbastanza alta
2 tranci di pescatrice
2 grossi gamberoni freschi
sale, pepe bianco
300 ml   fumetto di pesce
2 o 3 fettine di zenzero fresco




per completare
1 zucchina
1 pezzetto di zucca
qualche rametto di aneto
o altra erba aromatica per colorare il piatto



Scaldate il fumetto in un pentolino, a fuoco dolce, aggiungete il cucchiaino di pasta di tamarindo e se vi piace,  un  peperoncino fresco lavato e tagliato a metà,  lasciate che il tamarindo si sciolga completamente, quindi togliete dal fuoco e lasciate intiepidire, aggiungete lo zenzero grattugiato e il succo del lime.  Regolate di sale e di pepe.Tenete da parte.
Tagliate le zucchine in verticale e dividetele a metà, e di nuovo tagliate ogni metà in tre pezzi sempre in verticale, eliminate il grosso della parte bianca lasciandone un poca  e tagliate quello che resta della parte verde  a cubotti medi.
Fate lo stesso con la zucca.
Scottate in acqua bollente salata  i dadi di zucchine per qualche minuto, finchè sono morbidi ma ancora consistenti,  e scolateli  passandoli velocemente  sotto l'acqua fredda per mantenere il colore.
Nella stessa acqua bollente salata dove avete scottato le zucchine, fate cuocere i dadi di zucca finché sono morbidi ma compatti. Tenete entrambe le verdure da parte.
In un altro pentolino portate a bollore gli altri 300 ml di fumetto di pesce, aggiungetevi lo zenzero a fettine.
Lavate i tranci di pescatrice, pulite i gamberi eliminando testa, carapace e budelletto, lasciate solo la parte finale della coda.
Tagliate a  cubi i tranci di pescatrice, parateli eliminando le parti scure e quando il fumetto è in ebollizione, metteteli dentro a un capiente chinois, tuffateli nel fumetto bollente, salate leggermente  e fateli cuocere per qualche minuto. Scolateli e teneteli in caldo.
Ripetete la stessa operazione con i gamberi, sempre dentro allo chinois e sempre dentro allo stesso fumetto. Anche qui basteranno due o tre minuti. Toglieteli e tenete anch'essi in caldo.
In una padella antiaderente, fate prendere calore alla fetta di tonno,  senza grigliarla ma facendo in modo che all'interno resti cruda.
Quindi toglietela dalla padella e riducetela a pezzi regolari.
Ora componete il mosaico nel  piatto.
Filtrate il brodo al tamarindo con un colino foderato di carta da cucina o di una garza, perchè il tamarindo lascia un po' di fondo sempre. Dovrete avere alla fine un bel brodo ambrato e limpido.
Mettetene un  poco in ogni piatto, appoggiatevi,   alternandoli,  i cubi di pescatrice, e quelli di tonno insieme alle verdure, e ponete un gamberone nel centro del piatto.
Dopo tutti i passaggi  effettuati sarà diventato tutto freddo, basterà mettere il piatto già pronto un paio di minuti in forno a Micro Onde per intiepidire il tutto.
Alla fine, colorate con un poco di verde,  io ho usato aneto, ma potete usare erba cipollina, melissa, prezzemolo, quello che preferite...

Qui non c'è olio, quindi possiamo dire che è  anche un piatto dietetico?
Un piatto che in ogni caso  conserva  tutti i suoi sapori.
Ovviamente si possono usare diversi tipi di pesce, molluschi e crostacei, seguendo la fantasia e in base a  quello che si trova sui banchi della pescheria...

L'uomo di casa ha gradito.



N.B. Le dosi  che ho indicato sono per due piatti come quello in foto, e vanno bene come antipasto, ma     nulla  vieta di farne più quantità.
















domenica 2 ottobre 2016

Il polpo degli zavorristi



Oggi giornata dedicata al polpo, sempre nel quadro del Calendario del Cibo Italiano
progetto pensato  dalla Associazione Italiana Food Blogger e il relatore su questo argomento sarà Claudio Aloisio, del blog La cucina di Claudio.

Io, come contributo, voglio riproporre una vecchia ricetta marinara portata fino a noi dalla tradizione ligure, in particolare di Portovenere. Una ricetta che caratterizzava la  vita di bordo delle lente navigazioni costiere.
Le imbarcazioni da lavoro  che  partivano da Portovenere navigando sotto costa alla volta di Genova o di Livorno,   necessitavano sempre di abbondante zavorra  facile da maneggiare e da scaricare all'occorrenza,  quindi  i marinai addetti, gli zavorristi appunto,  andavano alla ricerca di pietre e  quelle che le onde non riuscivano a spingere fin  sulla battigia erano le più adatte. Pietre consumate e liscissime, ovviamente abbondanti lungo il litorale,   che  rappresentavano la soluzione migliore e più economica.
Andando a raccogliere pietre, gli zavorristi  si imbattevano in numerosi polpi che vivevano fra gli scogli,  li catturavano e li portavano a bordo. Li veniva fatto questo paté molto sfizioso e saporito che si conservava senza problemi durante la navigazione e che i marinai consumavano spalmato sulle gallette.
Il polpo è poi motivo di leggende in Liguria. A Tellaro,  molto vicino a Portovenere,  un piccolo, meraviglioso  borgo marinaro arroccato su una scogliera, un luogo dove il tempo sembra essersi fermato,  c'è una bellissima chiesa che si protende verso il mare,  è dedicata a San Giorgio Martire ed è detta "del polpo" per la leggenda che si tramanda da secoli.  Se osservate bene le sue mura, vi accorgerete che in qualche angolo  c'è una targa con un polpo in marmo per ricordare che fu  proprio un polpo a salvare il paese dai pirati.
La leggenda dice che un bambino, mentre giocava  in riva al mare, un giorno si imbatté in un polpo ferito, lui lo prese e lo curò a lungo e fra i due nacque una sorta di amicizia, ma il polpo, una volta guarito, riprese il mare.
Alle origini Tellaro era solo un avamposto su una costa impervia. Il suo compito era difendere il retroterra dai pericoli provenienti dal mare, e quando si profilava un pericolo, o un assalto dei pirati, a Tellaro suonavano le campane e gli abitanti si preparavano a resistere. Ma una notte di tempesta  intorno al 1660, così dice la leggenda,  Tellaro dormiva tranquilla e nessuno si accorse che i pirati stavano per attaccare ma mentre si avvicinavano alla riva, dalle acque uscì un enorme polpo che arrampicandosi sul campanile della chiesa iniziò a suonare le campane dando l'allarme. Gli abitanti, messi in allarme dallo scampanio , riuscirono a respingere i pirati e alla fine trovarono l'enorme polpo ancora appeso alle funi campanarie.  E si accorsero che  era quello che mesi prima era stato curato dal bambino.
Da allora in segno di gratitudine il polpo viene celebrato ovunque. Nelle storie, nei racconti mormorati sugli scogli, sugli stemmi e i bassorilievi all'ingresso delle case e, purtroppo per lui,
anche in punta di forchetta.

Ecco dunque che lo celebra anche questa ricetta, che vi consiglio caldamente di provare.




 Polpo degli zavorristi

1,5 kg. di polpo 
3 spicchi d’aglio
2 cucchiai di capperi sott'aceto
mezzo bicchiere di vino bianco
1 grosso ciuffo di prezzemolo
 olio extravergine d’oliva
aceto bianco q.b.
sale
pepe nero macinato al momento


Mettete a cuocere il polpo,  dopo averlo lavato ed eviscerato,  in un tegame a fondo spesso, o meglio ancora di coccio. Bagnatelo con il vino, aggiungete uno spicchio d'aglio, coprite il tegame e lasciatelo andare a fuoco lento. Non aggiungete altro liquido, ci penserà il polpo stesso a rilasciare il suo.
Quando è tenero, spegnete il fuoco e lasciatelo intiepidire  poi adagiatelo su un tagliere ed eliminate tutta la pelle e le ventose.  Man mano che lo liberate da pelle e ventose, mettete i pezzi in una ciotola, o una pentola, in cui avrete messo almeno un litro d' acqua e un bicchiere di aceto bianco.  Questa è la proporzione, 1 litro acqua/1 bicchiere aceto. Quindi regolatevi in base alla quantità d'acqua che occorrerà perchè il polpo sia ben coperto di liquido.
Lasciatelo a bagno una decina di minuti, dopodiché fatelo a pezzetti piccoli, mettetelo nel frullatore e frullatelo ad intermittenza, controllando che diventi della consistenza di un paté. Tenetelo da parte.
Tritate finissimamente l'aglio, il prezzemolo e i capperi ben sgocciolati.
In una larga padella scaldate un goccio d'olio extravergine d'oliva, aggiungete il trito e lasciatelo soffriggere leggermente, quindi unite il paté di polpo e  mescolate molto bene, con pazienza affinché si amalgamino i sapori, sfumate il tutto con un paio di cucchiai di aceto bianco, regolate di sale, aggiungete ancora un filo d'olio se vi sembra necessario e date una generosa macinata di pepe nero.
 
Servitelo, sia tiepido che freddo,  con crostini di pane.
 
 
 

Per la ricetta del Calendario, l'ho volutamente  lasciato un po' più rustico, ma  se preferite la consistenza del paté,  frullatelo a lungo,  poi procedete allo stesso modo e alla fine compattatelo bene.

Il risultato sarà come  questo:
 
 
 
 



Un modo un po' diverso di cucinare il polpo, ma altrettanto soddisfacente!