giovedì 8 settembre 2016

Profumo di mosto e di ricordi


 E' iniziata la vendemmia, e Alice Del Re del blog Pane libri e nuvole sarà ambasciatrice nella giornata ad essa dedicata per il Calendario del Cibo Italiano    a cura dell' Associazione Italiana Food Blogger 
non perdetevi il suo articolo, perchè sarà molto interessante e completo,  ed è sempre un piacere leggerla.
Non ho ricette legate a quell'evento o per meglio dire, non ho memoria di ricette specifiche che si facevano in occasione della  vendemmia,  posso solo contribuire a questa giornata condividendo quelli che sono i miei ricordi, il mio vissuto. Per cui vi porto con me, negli anni  a cavallo fra il '50 e il '60, nel mio Friuli e ricordate che la vendemmia era, ed è tuttora,  un rito, una tradizione che regge agli anni, che resiste alla meccanizzazione e che continua a riunire intere comunità. La vendemmia è l’apice di un lavoro durissimo, la sua fase finale, l’ultimo sforzo prima di vedere, di assaggiare il risultato: il vino.




Friuli è un mare chiuso fra passato e futuro, ed è in quel mare di vigneti, perfettamente allineati sugli argini delle strade, sulle colline moreniche, sui contrafforti delle montagne che sono nata, un tardo pomeriggio di dicembre.

Friuli è vino. E la storia del vino in questi territori ha inizio con la fondazione di Aquileia nel 181 a.c. grazie ai Romani, guerrieri, vignaioli e contadini allo stesso tempo.
Da allora e fino ai nostri giorni è stato tutto un susseguirsi di periodi di splendore produttivo
altrernati a periodi bui, ma sempre in evoluzione.




Friuli è la memoria, le mie radici.
Dopo la scuola, a Milano, partivo per passare tutte le mie estati con i nonni in quella grande casa dove ero nata... L'orto, la pompa dell'acqua,  il serraglio delle galline, l'albero di cachi nel mezzo del cortile, quello di fichi neri dietro la vecchia stalla......e la vigna nelle Grave. Mio nonno aveva un rapporto speciale con quella distesa di viti. Ne curava ogni pianta con talmente tanta dedizione che a volte mia nonna gli rimproverava di stare più nella vigna che nella sua casa.
Adoravo mio nonno, era uno di quei saggi che sapevano avvolgerti con i loro racconti incredibili fatti di guerra, di fame, di difficoltà e povertà, di terra. Era bello mio nonno, alto e magro, le mani affusolate ma estremamente callose, irrimediabilmente rovinate dal tanto lavoro e il volto cotto dal sole dove guizzavano due occhi un po' grigi e un po'azzurri, curiosi.
Un contadino friulano che trasmetteva una grande tranquillità interiore, che amava la campagna e il suo lavoro. Quando mi raccontava la grandiosità della natura, il susseguirsi delle stagioni, il significato di certi suoi gesti e il perché delle cose, si infervorava talmente che perdeva la cognizione  del tempo.
Aveva una forza incredibile, chiamavano solo lui a San Daniele, l'unico che  riusciva senza sforzo apparente a  falciare un campo  coltivato con un foraggio particolare,  per i maiali, molto duro da tagliare.  Partiva all'alba con la sua bicicletta, la falce a bandoliera, e una borsa di tela dove teneva il cote per affilare la lama, polenta e formaggio come pranzo e la fiaschetta dell'acqua, tornava al tramonto, in tempo per rigovernare le bestie, mungere le vacche e portare il latte alla latteria sociale....
Dopo la Grande Guerra, sul finire degli anni '20,  la vita contadina in Friuli era molto difficile e per mio nonno lo era anche di più. Nella famiglia patriarcale di allora si viveva tutti sotto lo stesso tetto, figli, nuore, cognati, nipoti, ma i vecchi genitori avevano il comando, sempre, e quando suo padre si ammalò, per potersi curare e per una serie di malaugurate circostanze,  fu costretto a svendere la quasi totalità della loro terra. 
Così mio nonno, sposato  con  figli, si ritrovò praticamente senza più nulla e  per vivere e mantenere la sua famiglia, accettò di  diventare mezzadro dei conti Dulio, di Valvasone, il paese vicino. Dei suoi fratelli, solo uno restò in paese, mezzadro con lui mentre le sorelle con le loro famiglie emigrarono chi in Francia, chi in Argentina.
Abbastanza iniqua la mezzadria, che costringeva il contadino a fare a metà di tutti i guadagni e dei  raccolti con chi, solo per il fatto di possedere la terra, magari semplicemente ereditata,  e senza alzare nemmeno una vanga, godeva i frutti della fatica altrui.  Durò fino al 1982, quando venne tramutata in affitto.

In ogni caso, di fondo c'era sempre il pessimismo dei contadini, sia che producessero vino oppure angurie.
Mio nonno si agitava ad ogni comparsa di nuvole, soprattutto in vista di un raccolto.... speriamo che stanotte non grandini, diceva, cosciente della forza della natura e consapevole di dover affrontare un lavoro enorme, scrupoloso, per arrivare alla qualità finale di quanto coltivato, coccolato, accudito durante il corso della stagione.. mesi duri, caldi, gravosi, e la sempre presente preoccupazione che un qualsiasi evento atmosferico potesse distruggere tutto il lavoro nelle vigne delle Grave. Non lo erano ma le considerava come sue, e in parte lo erano state prima che il padre si ammalasse.
Lui era un tutt'uno con le sue radici, abituato al sacrificio e alle rinunce, ma era sostenuto dalla concretezza delle tradizioni e dal rispetto di tutto quello che lo circondava.
Lui “sapeva” quando era il momento di vendemmiare,  quando l'uva era giunta alla giusta maturazione, e dove, in quale punto della vigna era più matura rispetto ad altri, sapeva quando era meglio aspettare a travasare il vino tenendo sempre sott'occhio la luna. 
L’uva va raccolta in luna calante diceva,  mentre la fermentazione deve essere in luna crescente, solo in questo modo il vino sarà limpido e non farà "fioriture" (quello che si chiama flocculazione)..
Si partiva sempre dal Pinot grigio,  che spesso viene definito  impropriamente come un’uva bianca, ma non lo è, si tratta infatti di una derivazione del Pinot Nero  e i suoi grappoli non sono proprio di colore chiaro

poi si passava al  Merlot e al  Cabernet Franc. Il Refosco dal peduncolo rosso venne dopo...
Le uve uccelline, quelle che stanno ai bordi dei boschi  o al limitare dei confini della vigna, le teneva per ultime, per farle appassire.
E fra quei filari dorati avveniva il miracolo della vendemmia che si ripeteva ogni settembre con colori e note sempre magiche, sempre diverse, a seconda della stagione che l'aveva preceduta.
Prima che cominciasse la magia, c'era un gran lavoro di preparazione da fare,  si dovevano imbiancare le pareti del portico a calce bianca, i tini venivano  lavati con acqua bollente e soda,  sul fondo si lasciava abbondante acqua  in modo che il legno si gonfiasse e rendesse la botte completamente impermeabile.
Se c'era qualche cerchio da sostituire ecco che colpi sapienti con  un martello lo facevano cadere, liberando le doghe che, come un fiore che sboccia, cadevano aperte sul pavimento. Una volta riparate, ecco che la stessa operazione prendeva la via inversa, con mani veloci  mio nonno picchiava sul cerchio fino a posizionarlo al suo posto esatto e io mi chiedevo come potesse sapere sempre quale era il suo posto.... Poi si affilavano le forbici, si preparavano le ceste, e si lavava anche il carro che avrebbe accolto le uve, si infilavano le sponde e lo  si rivestiva  di un vecchio telo impermeabile perchè i succhi dell'uva caricata,  che inevitabilmente si sarebbe schiacciata sotto il peso,  non si perdesse. Mi ricordo che era un telo mimetico, probabilmente militare,  chissà in quale modo arrivato fino a casa nostra.

 




Su dai, alzati, che andiamo.
Mi svegliava così, tutto contento di andare in vigna.
Lui era in piedi da prima che sorgesse il sole e aveva già munto le vacche e rigovernato la stalla.
Ci teneva  che ci fossi anch'io per la vendemmia e voleva che tutti vedessero  che sua  nipote,  "la milanesa" era comunque coinvolta nella vita del paese,  legata alle tradizioni.

Mi vestivo in fretta, scendevo e trovavo il caffelatte fumante sulla tavola. Mia nonna, in silenzio, con rapidi gesti preparava la solita borsa di tela. Polenta bianca, formaggio, a volte un pezzo di frittata, la fiaschetta dell'acqua che mettevamo in fresco nel Gorgaz , un torrente perennemente impetuoso che scorreva ai limiti della vigna, e via, infilavo lis dalminis, tipici zoccoli friulani che mi aveva fatto lui, e subito mi issava sulla canna della bicicletta. Qualche chilometro fuori dal paese, per strade bianche e viottoli fra i campi e arrivavamo...

Era consuetudine, in quella società contadina di allora, aiutarsi. Le braccia erano quelle di amici, di parenti, di conoscenti che venivano a vendemmiare la tua vigna, e in cambio tu andavi ad aiutare a vendemmiare la loro. Un mutuo scambio, senza contropartite che non fossero un fiasco di vino, un pezzo di formaggio, mezzo sacco di patate o, potendo, un salame se ne era rimasti dall'inverno prima.
Così, nelle vigne ci accoglieva un brulicare di gente indaffarata a raccogliere i grappoli, allineata sotto i tralci ancora umidi di rugiada, e mani veloci ed esperte  separavano i grappoli dalla pianta, eliminavano gli acini rovinati,  controllavano che l'uva fosse completamente sana. Un lavoro che richiedeva anche molta attenzione perchè le persone lavoravano opposte  lungo lo stesso filare, e bisognava stare attenti  alle mani del dirimpettaio, nascoste dal fogliame delle viti..
L'uva veniva messa in  grandi ceste che una volta riempite venivano caricate sui carri, e una volta colmi, i buoi si avviavano lentamente verso la cantina, o verso casa.
Un vino è buono se viene  da una buona uva, questa era la regola da seguire  per la  raccolta, perciò  l'uva  doveva arrivare integra nella cantina. Non credo sia cambiata nel corso del tempo.




Ogni tanto qualcuno intonava una vecchia Villotta, e allora tutti si mettevano a cantare e quelle voci, in mezzo alle vigne, le sento ancora.
Risento le risate agli aneddoti, alle barzellette in friulano e rivivo quel clima di allegria contagiosa che prendeva tutti, nonostante le mani sporche, le braccia stanche e il fastidio degli insetti. Rivivo quella  sensazione  di sentirsi parte integrante di  un tutto, di una comunità che condivideva la stessa cultura antica, quasi arcaica, e  ne era custode.
Alla fine, la maggior parte del raccolto finiva alla Cantina sociale, ma la quantità che serviva per il fabbisogno familiare andava negli enormi tini predisposti sull'aia, e allora tutti dentro a pigiare con i piedi.
Era forse il momento clou, il momento più bello, quello che dava un senso alla fatica di tutto un anno di lavoro e che scioglieva definitivamente le ansie e le preoccupazioni.
Finiva la vendemmia e ci si preparava alla festa intanto le fasi del lavoro avanzavano.. 
Le vinacce si filtravano facendole passare  attraverso un grande "setaccio" per schiacciare anche l'ultimo acino, e mio nonno, durante la fermentazione ogni giorno saliva ad affacciarsi sopra i tini con un grande bastone a cui era legata una specie di tavoletta quadrata, con questo attrezzo improvvisato  muoveva la superficie ormai compattata dalla fermentazione e la "spezzava". Tutto così veniva ossigenato in modo uniforme e le bucce degli acini, così facendo, non avevano il tempo di ossidarsi.
Alla fine, dopo qualche giorno di lavoro ininterrotto  si spinava  il mosto,  travasato in altre botti di legno passandolo attraverso un filtro che lo ossigenava e  lo liberava da impurità,  il mosto poi  veniva trasferito in altri grandi tini e messo a riposare in un locale apposito. Il suo profumo quasi ti stordiva, forte, dolce e inebriante.
Le vinacce venivano conservate in piccole botti dove ci si mettevano a marinare le rape per la brovada che sarebbe venuta ad autunno inoltrato...

Anche per i bambini la vendemmia  era un momento di allegria e di gioco. Anche per me quindi, che man mano che si pigiava e le uve si abbassavano, sparivo dentro al tino. Allora mio nonno mi prendeva in braccio e mi metteva fuori, inzaccherata fino all'inverosimile.
Le donne di casa apparecchiavano tavole  lunghissime  sotto le piante, nell'orto. Ed erano cibi semplici, poveri come la cucina friulana, polenta,  rigorosamente bianca,  e frico, salat e savola (salame,  cotto con tante cipolle e aceto) e frittata friulana, minestra di orzo e fagioli, insalata di radicchio, e Merlot, o Cabernet, molto.
E poi compariva quasi sempre una fisarmonica. E allora, complice il vino, balli e canti continuavano fino a notte, finché la stanchezza prendeva il sopravvento, e pian piano iniziavano i saluti perchè il giorno dopo si ricominciava, nella vigna di qualcun'altro.
Io ovviamente non restavo fino a tardi, salivo in camera mia e da sopra ascoltavo e aspettavo, senza dormire. Dopo il commiato dell'ultimo vendemmiante, sapevo che sarebbe venuto mio nonno a rassettarmi  il letto. Era il nostro appuntamento fisso, un piccolo rito fra noi due. Fingevo di dormire, lui si chinava sul letto e mi baciava sistemandomi le lenzuola. Al che io fingevo di svegliarmi e lo abbracciavo.
Odorava ancora di mosto. Un profumo che  ogni tanto  ritorna  quando penso a lui, alla sua vita tanto difficile e faticosa, al suo mancare relativamente giovane e al dolore che provo ogni volta al pensiero di che cosa avrebbe potuto essere se fosse vissuto più a lungo e non è stato.

Lui era Basilio, classe 1902, contadino friulano, mio nonno.









8 commenti:

  1. Che posti meravigliosi, è proprio bello leggere questo tipo di articoli sui nostri blog di cucina e non trovare solo ricette! :)

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  2. Cara Giuliana, devi sapere che miomarito si chiama Basilio !!! Sapevo fin dal primo momento che noi due dovessimo avere qualcosa in comune...non ci si innamora istintivamente senza un perché ! Io sono una cittadina al 100% ed è la mia condizione naturale ma leggendo il tuo racconto di un mondo per me sconosciuto mi rendo conto di aver perso molto o meglio, non ho avuto una parte importante e unica. Le tue parole sono come la musica...
    Un abbraccio e a presto !
    Marina

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  3. Cara Giuliana, mi hai commosso. Credo che tu abbia fatto un regalo bellissimo alla memoria di tuo nonno Basilio e un regalo altrettanto grande a noi: ricordi e racconti come i tuoi sono preziosissimi, un tesoro da custodire con cura. Grazie di cuore.

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  4. cara Marina, grazie. Abbiamo in comune anche l'amore per un Paese ricco di tante identità e culture, selvaggio e bellissimo, dove ho conosciuto persone che porterò sempre nel cuore.
    Son cittadina anch'io, ma, grazie ai miei e anche a mio nonno, ho avuto la fortuna di avere radici contadine, a cui sono ancorata con la testardaggine e la tenacia tipica degli uomini e le donne del mio Friuli.
    Grazie per la musica, mi fai un gran complimento.

    Un saluto al tuo Basilio.

    Giuli

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  5. grazie anche a te Alice, mio nonno è stato un uomo che ha lasciato molto di sè, a tutta la nostra famiglia, con l'esempio, con la sua rettitudine, con la sua grande forza nell'affrontare le avversità, un grande insegnamento per noi, e mi manca molto ancora oggi.
    Questo blog è nato per raccogliere, oltre che le mie cose di cucina, anche le memorie, le storie della nostra famiglia, storie della vita di persone che ho amato e che non ci sono più, in modo che chi verrà dopo possa conoscerle.

    Grazie ancora, e ancora complimenti per il bellissimo pezzo che hai scritto sulla vendemmia,

    Giuli

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  6. Che delizia leggere i tuoi ricordi di bambina alla festa della vendemmia col tuo amato nonno!!

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