AIFB
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Calendario del Cibo italiano
maiale
primi
Inverno, tempo di zuppe. E non c'è niente di più consolante di un piatto di zuppa calda e fumante ad attenderti sulla tavola nei giorni più freddi dell'inverno, una zuppa che riempie e scalda fino al midollo..
Oggi ripropongo questa vecchia ricetta in occasione della giornata dedicata alle zuppe di ceci dal Calendario del Cibo Italiano progetto della Associazione Italiana Food Blogger e Laura del blog Laura Adani Photography - io così come sono ne sarà ambasciatrice. Credo che ne scopriremo di belle e di buone.
Un piatto tradizionale questo, sapore deciso e, per me che amo i ceci, squisito e adatto alle giornate lunghe, fredde e buie dell'inverno che è alle porte.
E' un piatto veramente robusto e ricco, di quelli delle nonne; un piatto da preparare con il tempo e la pazienza perchè deve pippiare dolcemente a lungo sul fuoco profumando tutta la casa...
Una ricetta che si fa in modi diversi, secondo la regione in cui la si trova e, come per tutte le ricette tradizionali, ogni famiglia ne ha la propria versione ed ogni famiglia sostiene che la propria è quella vera, quella giusta, quella tramandata dalla nonna Maria, o Giuseppina, o Filomena...
Quella che invece troverete più sotto è la ricetta di Elena Collini, una cara amica, vera gourmet, che l'ha condivisa con noi sul forum di Coquinaria, anni fa e che io faccio e rifaccio ad ogni inverno.
E' decisamente calorica, è vero, ma una volta tanto si può fare, soprattutto quando la temperatura scende parecchio oppure quando fuori nevica e si sta bene solo rintanati al calduccio di casa, la domenica..
Zuppa di ceci e costine di maiale
150 g di ceci secchi (calcolati a persona)
2 grosse patate, o più, dipende da quanta zuppa si vuole fare
1 pezzetto non troppo grosso di cotenna di maiale
60 g pancetta affumicata tagliata a dadini
costine di maiale, calcolarne tre a testa, o più, secondo l'appetito e il gusto..
1 carota
1 costa di sedano
1 bella cipolla
burro abbondante
salvia abbondante
sale, pepe nero
Mettete a bagno i ceci per una notte, con una punta di bicarbonato di sodio. Il giorno dopo sciacquateli a lungo prima di utilizzarli.
Raschiate bene e strinate la cotenna per eliminare eventuali peli e setole residue, tagliatela a pezzetti.
Preparate un trito abbondante di sedano, carota, cipolla. Tagliate a dadini la pancetta affumicata.
In una capace pentola, fate stufare il trito di sedano, carota, cipolla con un goccio d'olio e una noce di burro insieme alla pancetta affumicata, aggiungert i ceci scolati, mescolate il tutto per farlo insaporire un po', quindi coprite d'acqua bollente, aggiungete anche le patate intere, regolate di sale e di pepe e fate cuocere dolcemente a fuoco bassissimo per un paio d'ore. Trascorso questo tempo, schiacciate le patate ormai cotte, aggiungete la cotenna e le costine, e continuate la cottura per un'altra ora e mezza. Eventualmente aggiungete acqua calda se necessario. Volendo, prima di unirli alla zuppa, si possono scottare in acqua bollente sia le costine che la cotenna, conservando poi questo loro brodo che servirà ad allungare la zuppa al posto dell'acqua, in caso si riducesse troppo cuocendo.
Una volta pronta la minestra, la carne delle costine sarà morbidissima, quasi sfatta e si staccherà dalle ossa, e allora fate fondere il burro insieme alla salvia, lasciandolo soffriggere un pochino, quindi unite il tutto alla zuppa, profumate con una bella macinata di pepe nero, mescolate e servite calda fumante...
Zuppa di ceci e costine di maiale
Inverno, tempo di zuppe. E non c'è niente di più consolante di un piatto di zuppa calda e fumante ad attenderti sulla tavola nei giorni più freddi dell'inverno, una zuppa che riempie e scalda fino al midollo..
Oggi ripropongo questa vecchia ricetta in occasione della giornata dedicata alle zuppe di ceci dal Calendario del Cibo Italiano progetto della Associazione Italiana Food Blogger e Laura del blog Laura Adani Photography - io così come sono ne sarà ambasciatrice. Credo che ne scopriremo di belle e di buone.
Un piatto tradizionale questo, sapore deciso e, per me che amo i ceci, squisito e adatto alle giornate lunghe, fredde e buie dell'inverno che è alle porte.
E' un piatto veramente robusto e ricco, di quelli delle nonne; un piatto da preparare con il tempo e la pazienza perchè deve pippiare dolcemente a lungo sul fuoco profumando tutta la casa...
Una ricetta che si fa in modi diversi, secondo la regione in cui la si trova e, come per tutte le ricette tradizionali, ogni famiglia ne ha la propria versione ed ogni famiglia sostiene che la propria è quella vera, quella giusta, quella tramandata dalla nonna Maria, o Giuseppina, o Filomena...
Quella che invece troverete più sotto è la ricetta di Elena Collini, una cara amica, vera gourmet, che l'ha condivisa con noi sul forum di Coquinaria, anni fa e che io faccio e rifaccio ad ogni inverno.
E' decisamente calorica, è vero, ma una volta tanto si può fare, soprattutto quando la temperatura scende parecchio oppure quando fuori nevica e si sta bene solo rintanati al calduccio di casa, la domenica..
Zuppa di ceci e costine di maiale
150 g di ceci secchi (calcolati a persona)
2 grosse patate, o più, dipende da quanta zuppa si vuole fare
1 pezzetto non troppo grosso di cotenna di maiale
60 g pancetta affumicata tagliata a dadini
costine di maiale, calcolarne tre a testa, o più, secondo l'appetito e il gusto..
1 carota
1 costa di sedano
1 bella cipolla
burro abbondante
salvia abbondante
sale, pepe nero
Mettete a bagno i ceci per una notte, con una punta di bicarbonato di sodio. Il giorno dopo sciacquateli a lungo prima di utilizzarli.
Raschiate bene e strinate la cotenna per eliminare eventuali peli e setole residue, tagliatela a pezzetti.
Preparate un trito abbondante di sedano, carota, cipolla. Tagliate a dadini la pancetta affumicata.
In una capace pentola, fate stufare il trito di sedano, carota, cipolla con un goccio d'olio e una noce di burro insieme alla pancetta affumicata, aggiungert i ceci scolati, mescolate il tutto per farlo insaporire un po', quindi coprite d'acqua bollente, aggiungete anche le patate intere, regolate di sale e di pepe e fate cuocere dolcemente a fuoco bassissimo per un paio d'ore. Trascorso questo tempo, schiacciate le patate ormai cotte, aggiungete la cotenna e le costine, e continuate la cottura per un'altra ora e mezza. Eventualmente aggiungete acqua calda se necessario. Volendo, prima di unirli alla zuppa, si possono scottare in acqua bollente sia le costine che la cotenna, conservando poi questo loro brodo che servirà ad allungare la zuppa al posto dell'acqua, in caso si riducesse troppo cuocendo.
Una volta pronta la minestra, la carne delle costine sarà morbidissima, quasi sfatta e si staccherà dalle ossa, e allora fate fondere il burro insieme alla salvia, lasciandolo soffriggere un pochino, quindi unite il tutto alla zuppa, profumate con una bella macinata di pepe nero, mescolate e servite calda fumante...
AIFB
Calendario del Cibo italiano
Pan dei morti e altre storie
Ripropongo
questo vecchio post dedicato alle celebrazioni di Ognissanti e
alla commemorazione dei defunti, perchè oggi il
Calendario
del cibo Italiano progetto
a cura della Associazione
Italiana Food Blogger dedicherà la settimana che si apre a
questa ricorrenza, e Alessandra Gennaro del blog An
Old fashioned lady e Susanna Canetti del blog Afrodita's
Kitchen ne saranno le ambasciatrici. Non perdetevi il loro
articolo a riguardo, so che sarà molto interessante leggerlo e
conoscere usi, costumi, storie e aneddoti legati a questo periodo.
Il giorno dei morti ci si veste pesante perché l'aria è ormai diventata fredda ed è arrivata la prima nebbia della stagione, si toglie il cappotto da dove era stato riposto, si spolverano stivali e scarpe adatte e ci si accinge ad affrontare l'inverno imminente.
Il sole che sbiadisce e ci abbandona, i fiori che pian piano si seccano e cadono, il tappeto di foglie rosse e gialle su cui camminiamo, le notti lunghe che iniziano quando è ancora giorno....tutto questo fa pensare alla fatica, al riposo, al sonno, al passato, e il pensiero ritorna su ciò che è stato.
Così in questa stagione più facilmente si evocano le ombre, si parla con loro.
Il giorno dei morti fiori e lumini riempiono il cimitero di ogni paese con un'aria quasi di festa se non fosse per quelle foto ovali con piccoli volti in bianco e nero di un tempo sparito, che sorridono lontani perché nulla li può più toccare..
La morte è un tema spesso doloroso e difficile da accettare. Ma lo sappiamo, niente nell'universo intero può resistere al tempo. Tutto ne viene travolto, tutto è destinato a scomparire, a mutare. E' difficile ogni giorno accettare, sopportare la mancanza, il vuoto lasciato da chi non c'è più.
Nel tempo a volte subentra una sorta di dolore quieto, quasi fatto di struggente tenerezza, ma il dolore è comunque sordo, è muto e ascolta solo se stesso...non ci sono parole uguali per ognuno di noi, che possono raccontarlo.
Anche nel giorno dei morti richiamiamo alla mente i nostri cari scomparsi, per rivederli intorno a noi, per offrire loro un fiore, per fare pace, per non dimenticare, perché sono sempre ben vivi dentro il nostro cuore, la nostra mente, il nostro ricordo.
Vita e morte sono inevitabilmente legate, e il giorno dei morti ogni casa si riempie di tutte le tradizioni per continuare a mantenere forti legami con i propri defunti e
antiche usanze vivono in tutto il nostro Paese.
Io sono nata in Friuli dove sono rimasta per tutto il primo anno di vita, e poi mi sono trasferita a Milano con i miei genitori, dove sono cresciuta, dopo una parentesi di qualche anno sulle montagne comasche. Grazie alla mia famiglia ho assimilato sia le tradizioni lombarde che quelle friulane e le usanze di entrambe le regioni fanno parte della mia vita da che ho memoria.
A Milano, ma generalmente in tutta la Lombardia, il dolce tradizionale di questo periodo è il Pan dei Morti.
Cuocerlo significa avere la casa a lungo profumata di spezie, un profumo che mi fa tornare bambina, quando il pan dei morti si comprava in panetteria. Ognuna ne aveva sempre un bel vassoio pronto sul banco e il suo profumo si sentiva fin sulla strada, si spandeva per la via solleticando le narici e facendo venire la voglia irrefrenabile di addentarne uno, bello morbido e fondente, e di riempirsi il viso di zucchero a velo..
La signora Luisa, la panettiera quasi all'angolo di Via Marghera dove passavo tutte le mattine per andare a scuola, mi conosceva bene ormai, ogni giorno entravo a comprare la merenda da mettere in cartella....a volte la mantovana, una specie di pasta brioche tutta bitorzoluta, asciutta che più asciutta non si può, altre volte la veneziana, con la granella di mandorle e zucchero sopra, oppure, altre volte ancora, le peschine con la marmellata belle rosse di Alchermes e, in questo periodo, il pan dei morti...
....questo profumo di spezie che aleggia per casa, mi fa ricordare la sciura Luisa, un donnone giunonico bonario e gentile, dagli occhi più azzurri che ho visto in vita mia, piazzata sempre dietro al bancone del negozio, dopo la notte passata a sfornare pane in quantità....
entravo nel negozio insieme a frotte di altri bambini, con un misto di soggezione e timidezza, sceglievo la mia merenda, tiravo fuori le monete che mi dava mamma per pagare e me ne andavo col mio pan dei morti in mano, avvolto in un minuscolo foglio di carta velina beige, accompagnata dal suo sguardo azzurro e intenso fin sul marciapiede...lo sentivo quello sguardo, come se fosse appiccicato sulla schiena...
poi, nell'ultimo pezzo di strada che mi divideva dalla scuola, non resistevo a quel profumo di cannella e ne sbocconcellavo golosamente qualche pezzetto camminando... ne è passato parecchio di tempo da allora, ma il sapore di quel pan dei morti della Luisa, me lo ricordo ancora molto bene....
Invece in Friuli, mio nonno prima e mio padre dopo di lui, prima di andare a letto, il giorno dei morti lasciavano la luce accesa sotto il portico, un secchio d'acqua e del pane sulla tavola cosicché i defunti potessero trovare luce e cibo per ristorarsi durante il pellegrinaggio notturno verso le chiese e i santuari.
Si dice che in quella notte i defunti tornino a noi vestiti di bianco, e che chi entra in quelle chiese e in quei santuari le troverà affollate da una moltitudine di persone che non sono più in vita e che scomparirà all'alba, al primo canto del gallo.
E guai a guardar fuori dalla finestra...ci potevano essere i morti chiamati dall'insistente e prolungato suono delle campane, a spiare noi vivi.
Ogni famiglia prepara i dolci dei morti....a casa mia delle semplici caldarroste, con un bicchiere di vino rosso...e un goccio non si negava anche ai bambini..
Su per le montagne invece , hanno da sempre fatto rivivere anche le antichissime tradizioni pagane e ancora oggi si fa la rievocazione storica del capodanno celtico, quando si pensava che in questa notte i defunti tornassero accompagnati dal piccolo popolo degli elfi, (gli sbilfs) delle streghe (lis striis) e delle fate (lis aganis) per visitare i luoghi in cui avevano vissuto. La gente va per le strade del paese con le zucche intagliate come maschere spaventose, illuminate dalle candele...
Intagliare le zucche per usarle come lumi non è solo una usanza americana, è presente da noi da secoli...
Ricordo quelle notti fredde, le processioni lungo le strade del paese, la polenta bianca, calda fumante , di mia nonna, il muset con la brovada, il riunirsi tutti intorno alla grande tavola insieme a parenti ed amici, a chiacchierare e a mangiare le castagne man mano che mio padre le cuoceva sulla stufa a legna, fra un bicchiere di Merlot e un bicchierino di grappa, e poi, prima di andare a letto, la tavola apparecchiata con tutto quello che avevamo preparato, le caldarroste, il vino, il pane, l'acqua.
Mio padre usciva sotto il portico, accendeva la luce, rientrava e chiudeva le porte a doppia mandata...
Il giorno dopo era tutto come l'avevamo lasciato, ma ogni anno, alla stessa ricorrenza, erano gli stessi gesti, lo stesso sentire...Come a non voler spezzare quel legame col mondo dei più..
Ogni volta, la mattina dopo, osservavo la tavola e poi guardavo mio padre ... Perchè è ancora tutto lì dove lo abbiamo lasciato, gli chiedevo muta... lui mi guardava sorridendo sornione e scambiava uno sguardo complice con mia nonna, si alzava dalla sedia e mi diceva: Dai, sparecchiamo e non preoccuparti, sono venuti ma non avevano fame...probabilmente hanno mangiato a casa della zia Norina. Solo qualche anno dopo, ho capito.
Il giorno dei morti ci si veste pesante perché l'aria è ormai diventata fredda ed è arrivata la prima nebbia della stagione, si toglie il cappotto da dove era stato riposto, si spolverano stivali e scarpe adatte e ci si accinge ad affrontare l'inverno imminente.
Il sole che sbiadisce e ci abbandona, i fiori che pian piano si seccano e cadono, il tappeto di foglie rosse e gialle su cui camminiamo, le notti lunghe che iniziano quando è ancora giorno....tutto questo fa pensare alla fatica, al riposo, al sonno, al passato, e il pensiero ritorna su ciò che è stato.
Così in questa stagione più facilmente si evocano le ombre, si parla con loro.
Il giorno dei morti fiori e lumini riempiono il cimitero di ogni paese con un'aria quasi di festa se non fosse per quelle foto ovali con piccoli volti in bianco e nero di un tempo sparito, che sorridono lontani perché nulla li può più toccare..
La morte è un tema spesso doloroso e difficile da accettare. Ma lo sappiamo, niente nell'universo intero può resistere al tempo. Tutto ne viene travolto, tutto è destinato a scomparire, a mutare. E' difficile ogni giorno accettare, sopportare la mancanza, il vuoto lasciato da chi non c'è più.
Nel tempo a volte subentra una sorta di dolore quieto, quasi fatto di struggente tenerezza, ma il dolore è comunque sordo, è muto e ascolta solo se stesso...non ci sono parole uguali per ognuno di noi, che possono raccontarlo.
Anche nel giorno dei morti richiamiamo alla mente i nostri cari scomparsi, per rivederli intorno a noi, per offrire loro un fiore, per fare pace, per non dimenticare, perché sono sempre ben vivi dentro il nostro cuore, la nostra mente, il nostro ricordo.
Vita e morte sono inevitabilmente legate, e il giorno dei morti ogni casa si riempie di tutte le tradizioni per continuare a mantenere forti legami con i propri defunti e
antiche usanze vivono in tutto il nostro Paese.
Io sono nata in Friuli dove sono rimasta per tutto il primo anno di vita, e poi mi sono trasferita a Milano con i miei genitori, dove sono cresciuta, dopo una parentesi di qualche anno sulle montagne comasche. Grazie alla mia famiglia ho assimilato sia le tradizioni lombarde che quelle friulane e le usanze di entrambe le regioni fanno parte della mia vita da che ho memoria.
A Milano, ma generalmente in tutta la Lombardia, il dolce tradizionale di questo periodo è il Pan dei Morti.
Cuocerlo significa avere la casa a lungo profumata di spezie, un profumo che mi fa tornare bambina, quando il pan dei morti si comprava in panetteria. Ognuna ne aveva sempre un bel vassoio pronto sul banco e il suo profumo si sentiva fin sulla strada, si spandeva per la via solleticando le narici e facendo venire la voglia irrefrenabile di addentarne uno, bello morbido e fondente, e di riempirsi il viso di zucchero a velo..
La signora Luisa, la panettiera quasi all'angolo di Via Marghera dove passavo tutte le mattine per andare a scuola, mi conosceva bene ormai, ogni giorno entravo a comprare la merenda da mettere in cartella....a volte la mantovana, una specie di pasta brioche tutta bitorzoluta, asciutta che più asciutta non si può, altre volte la veneziana, con la granella di mandorle e zucchero sopra, oppure, altre volte ancora, le peschine con la marmellata belle rosse di Alchermes e, in questo periodo, il pan dei morti...
....questo profumo di spezie che aleggia per casa, mi fa ricordare la sciura Luisa, un donnone giunonico bonario e gentile, dagli occhi più azzurri che ho visto in vita mia, piazzata sempre dietro al bancone del negozio, dopo la notte passata a sfornare pane in quantità....
entravo nel negozio insieme a frotte di altri bambini, con un misto di soggezione e timidezza, sceglievo la mia merenda, tiravo fuori le monete che mi dava mamma per pagare e me ne andavo col mio pan dei morti in mano, avvolto in un minuscolo foglio di carta velina beige, accompagnata dal suo sguardo azzurro e intenso fin sul marciapiede...lo sentivo quello sguardo, come se fosse appiccicato sulla schiena...
poi, nell'ultimo pezzo di strada che mi divideva dalla scuola, non resistevo a quel profumo di cannella e ne sbocconcellavo golosamente qualche pezzetto camminando... ne è passato parecchio di tempo da allora, ma il sapore di quel pan dei morti della Luisa, me lo ricordo ancora molto bene....
Invece in Friuli, mio nonno prima e mio padre dopo di lui, prima di andare a letto, il giorno dei morti lasciavano la luce accesa sotto il portico, un secchio d'acqua e del pane sulla tavola cosicché i defunti potessero trovare luce e cibo per ristorarsi durante il pellegrinaggio notturno verso le chiese e i santuari.
Si dice che in quella notte i defunti tornino a noi vestiti di bianco, e che chi entra in quelle chiese e in quei santuari le troverà affollate da una moltitudine di persone che non sono più in vita e che scomparirà all'alba, al primo canto del gallo.
E guai a guardar fuori dalla finestra...ci potevano essere i morti chiamati dall'insistente e prolungato suono delle campane, a spiare noi vivi.
Ogni famiglia prepara i dolci dei morti....a casa mia delle semplici caldarroste, con un bicchiere di vino rosso...e un goccio non si negava anche ai bambini..
Su per le montagne invece , hanno da sempre fatto rivivere anche le antichissime tradizioni pagane e ancora oggi si fa la rievocazione storica del capodanno celtico, quando si pensava che in questa notte i defunti tornassero accompagnati dal piccolo popolo degli elfi, (gli sbilfs) delle streghe (lis striis) e delle fate (lis aganis) per visitare i luoghi in cui avevano vissuto. La gente va per le strade del paese con le zucche intagliate come maschere spaventose, illuminate dalle candele...
Intagliare le zucche per usarle come lumi non è solo una usanza americana, è presente da noi da secoli...
Ricordo quelle notti fredde, le processioni lungo le strade del paese, la polenta bianca, calda fumante , di mia nonna, il muset con la brovada, il riunirsi tutti intorno alla grande tavola insieme a parenti ed amici, a chiacchierare e a mangiare le castagne man mano che mio padre le cuoceva sulla stufa a legna, fra un bicchiere di Merlot e un bicchierino di grappa, e poi, prima di andare a letto, la tavola apparecchiata con tutto quello che avevamo preparato, le caldarroste, il vino, il pane, l'acqua.
Mio padre usciva sotto il portico, accendeva la luce, rientrava e chiudeva le porte a doppia mandata...
Il giorno dopo era tutto come l'avevamo lasciato, ma ogni anno, alla stessa ricorrenza, erano gli stessi gesti, lo stesso sentire...Come a non voler spezzare quel legame col mondo dei più..
Ogni volta, la mattina dopo, osservavo la tavola e poi guardavo mio padre ... Perchè è ancora tutto lì dove lo abbiamo lasciato, gli chiedevo muta... lui mi guardava sorridendo sornione e scambiava uno sguardo complice con mia nonna, si alzava dalla sedia e mi diceva: Dai, sparecchiamo e non preoccuparti, sono venuti ma non avevano fame...probabilmente hanno mangiato a casa della zia Norina. Solo qualche anno dopo, ho capito.
Ecco la ricetta del Pan dei Morti, di tradizione lombarda.
PAN
DEI MORTI
200
gr di rimasugli o briciolame di biscotti secchi
120
gr farina
150
gr zucchero semolato
3
cucchiai rasi di cacao amaro
100gr
uvetta
50
gr mandorle pelate
50
gr pinoli
50
gr ciliegie candite
2
fichi secchi (facoltativo)
mezzo
cucchiaino di lievito per torte
1
cucchiaio raso di cannella in polvere
1
cucchiaino di chiodo di garofano macinato
mezzo
cucchiaino di noce moscata
un
pizzico di sale
vino
bianco q.b. (o del Vinsanto)
1
albume
Ammorbidite
l'uvetta in un goccio di acqua calda mista a poco vino bianco, unite
anche i fichi secchi ridotti a pezzetti, se decidete di metterli.
Nel
mixer tritate i biscotti, raccoglieteli in una terrina e aggiungere
la farina, lo zucchero, le mandorle tritate non troppo fini, i
pinoli, le ciliegie tritate anch'esse grossolanamente, il lievito, il
cacao, le spezie e infine l'uvetta scolata e strizzata e il pizzico
di sale.
A
questo punto aggiungete i liquidi, l'albume appena appena sbattuto,
giusto per scioglierlo un pochino, e infine il vino bianco. Versate
il vino poco alla volta, e regolatevi con la quantità in modo che
l'impasto risulti abbastanza compatto e solido, da lavorare con
le mani, alla fine deve risultare una specie di palla compatta e
liscia.
Scaldate
il forno a 180° ventilato e foderate una teglia con carta forno.
Con
l'impasto fate una specie di salsicciotti di 6/7 cm di diametro,
tagliateli in pezzi di circa 4 cm, appiattiteli leggermente con le
mani inumidite, in modo da ricavare una forma allungata ovoidale,
alta poco meno di 1 cm.
Adagiateli
in file sfalzate sulla teglia foderata, tenendo conto che un poco si
gonfiano, distanziandoli abbastanza regolarmente.
Cuocete
a 180° per 15 minuti, in funzione ventilata, si formeranno delle
crepe, è normale. A questo punto abbassate a 160° la temperatura,
cambiando la funzione da ventilato a statico, e tenendo un poco
aperto il forno mettendo un cucchiaio di legno nello sportello (come
si fa a volte con le meringhe) quindi continuate la cottura per
altri 20/ 25 minuti. Devono essere morbidi e fondenti
all'interno..
Lasciate
che si raffreddino poi spolverate abbondantemente con lo zucchero a
velo.
Sulla tavola, insieme a un vassoio di Pan dei Morti, io aggiungo anche qualche caldarrosta accompagnata da un buon bicchiere di vino rosso. E' il mio modo di fondere le tradizioni e di ricordare le persone a me care che non ci sono più.
Sulla tavola, insieme a un vassoio di Pan dei Morti, io aggiungo anche qualche caldarrosta accompagnata da un buon bicchiere di vino rosso. E' il mio modo di fondere le tradizioni e di ricordare le persone a me care che non ci sono più.
Ed è anche il mio contributo a questa giornata dedicata alla commemorazione dei defunti da parte del Calendario del Cibo Italiano.
AIFB
Calendario del Cibo italiano
primi
Zucca barucca, barucca calda! È Canocchia ad urlare per attirare gli avventori nella seconda scena del primo atto de Le baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni, e così la fetta di zucca barucca calda offerta da Toffolo – detto Marmottina – a Lucietta, promessa sposa al pescatore Titta-Nane, scatena le baruffe che imperversano per tutta la commedia veneziana. Perché a Venezia la zucca si vendeva a fette, calda, appena uscita dal forno. Ed era proprio la zucca barucca la varietà locale che si trovava in giro in osterie e calli. O meglio, la suca baruca, per dirla alla veneta. Suca baruca è in effetti il nome dialettale della zucca marina di Chioggia, che nel tempo è diventato zucca barucca. Un nome facile, simpatico, che strappa sempre istintivamente un sorriso. Una zucca dall’aria un po’ scontrosa, con quelle sue coste bitorzolute che ricordano molto il viso di vecchie streghe. Non per nulla una delle ipotesi relative al suo nome deriva proprio dall’assonanza fra verruca e barucca. Verruca deriva dal latino veruca, che significa, appunto, escrescenza. Ma ci potrebbe essere anche un’altra strada, che porta alla tradizione ebraica, a quel baruch che significa santo, quasi a santificare la capacità della zucca di sfamare i contadini nel difficile periodo invernale.
Zucca del tipo a turbante, di forma rotondeggiante e dimensioni spesso importanti, alcuni esemplari possono arrivare a pesare anche oltre i 5 kg. La buccia è piena di bitorzoli e di colore grigio-verde. La polpa è di un bel giallo carico tendente all’arancione, soda, densa.
Zucca barucca, oggi è il tuo giorno!
Il Calendario del Cibo Italiano, progetto della Associazione Italiana Food Blogger oggi dedica questa giornata a questo coloratissimo ortaggio dalle origini lontanissime e ancora non del tutto certe.
Forse furono gli Etruschi a coltivarle, o forse prima di loro i Fenici, chi lo sa... Sabrina del blog Architettando in cucina potrà forse svelarci il mistero raccontandoci tutte le notizie, gli aneddoti, le informazioni che riguardano la zucca. Potrete scoprire tutto leggendo il suo articolo!
Io invece so che è un ortaggio che non ho mai amato particolarmente, troppo dolce per i miei gusti, infatti la troverete in poche delle mie ricette, ma invecchiando anche i gusti invecchiano, o cambiano, si abituano a certi sapori e a volte arrivano ad apprezzarli persino. Come in questo caso, con questa preparazione che è il mio contributo al Calendario di oggi.
La ricetta che ho usato per l'impasto degli gnocchi veri e propri è di una cara amica, Bruna Cipriani che ha un bellissmo blog che si chiama Tentazioni di gusto. Lei è una fuoriclasse e in cucina è una vera Maestra.
Gnocchi di zucca, roux alla noce moscata e ricotta affumicata.
per 4 persone
per l'impasto degli gnocchi:
Gnocchi di zucca a modo mio
Zucca barucca, barucca calda! È Canocchia ad urlare per attirare gli avventori nella seconda scena del primo atto de Le baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni, e così la fetta di zucca barucca calda offerta da Toffolo – detto Marmottina – a Lucietta, promessa sposa al pescatore Titta-Nane, scatena le baruffe che imperversano per tutta la commedia veneziana. Perché a Venezia la zucca si vendeva a fette, calda, appena uscita dal forno. Ed era proprio la zucca barucca la varietà locale che si trovava in giro in osterie e calli. O meglio, la suca baruca, per dirla alla veneta. Suca baruca è in effetti il nome dialettale della zucca marina di Chioggia, che nel tempo è diventato zucca barucca. Un nome facile, simpatico, che strappa sempre istintivamente un sorriso. Una zucca dall’aria un po’ scontrosa, con quelle sue coste bitorzolute che ricordano molto il viso di vecchie streghe. Non per nulla una delle ipotesi relative al suo nome deriva proprio dall’assonanza fra verruca e barucca. Verruca deriva dal latino veruca, che significa, appunto, escrescenza. Ma ci potrebbe essere anche un’altra strada, che porta alla tradizione ebraica, a quel baruch che significa santo, quasi a santificare la capacità della zucca di sfamare i contadini nel difficile periodo invernale.
Zucca del tipo a turbante, di forma rotondeggiante e dimensioni spesso importanti, alcuni esemplari possono arrivare a pesare anche oltre i 5 kg. La buccia è piena di bitorzoli e di colore grigio-verde. La polpa è di un bel giallo carico tendente all’arancione, soda, densa.
Zucca barucca, oggi è il tuo giorno!
Il Calendario del Cibo Italiano, progetto della Associazione Italiana Food Blogger oggi dedica questa giornata a questo coloratissimo ortaggio dalle origini lontanissime e ancora non del tutto certe.
Forse furono gli Etruschi a coltivarle, o forse prima di loro i Fenici, chi lo sa... Sabrina del blog Architettando in cucina potrà forse svelarci il mistero raccontandoci tutte le notizie, gli aneddoti, le informazioni che riguardano la zucca. Potrete scoprire tutto leggendo il suo articolo!
Io invece so che è un ortaggio che non ho mai amato particolarmente, troppo dolce per i miei gusti, infatti la troverete in poche delle mie ricette, ma invecchiando anche i gusti invecchiano, o cambiano, si abituano a certi sapori e a volte arrivano ad apprezzarli persino. Come in questo caso, con questa preparazione che è il mio contributo al Calendario di oggi.
La ricetta che ho usato per l'impasto degli gnocchi veri e propri è di una cara amica, Bruna Cipriani che ha un bellissmo blog che si chiama Tentazioni di gusto. Lei è una fuoriclasse e in cucina è una vera Maestra.
Gnocchi di zucca, roux alla noce moscata e ricotta affumicata.
per 4 persone
per l'impasto degli gnocchi:
1,5 kg zucca matura (
750 g circa di polpa cotta)
gr. 350 farina 00
2 uova
2 cucchiai colmi di parmigiano grattugiato
poca noce moscata
un pizzico di sale
per il roux:
20 g burro
20 g farina
250/280 cc latte
un grosso pizzico di noce moscata
un pizzico di sale
per completare:
una grossa noce di burro
1 spicchio d'aglio
1 ciuffetto di foglie di salvia
abbondante ricotta affumicata grattugiata
Pulite la zucca da semi e filamenti, tagliatela a spicchi non troppo spessi e adagiateli in una teglia foderata di alluminio, copriteli con altrettanto alluminio e mettete tutto in forno a 180° finchè al tatto la zucca è perfettamente morbida e cotta. Ci vorranno 30 o 40 minuti, dipende da quanto saranno spesse le fette.
Toglietela dal forno, eliminate la scorza, lasciatela intiepidire quindi premetela con le mani per eliminare l' eventuale liquido che può essere ancora prsente. Passatela al passaverdura o allo schiacciapatate e controllate che la purea sia bene asciutta, altrimenti mettetela qualche minuto in tegame su fuoco allegro, mescolando, finché vi sembra abbastanza asciutta.
Trasferite la purea in una ciotola, lasciate raffreddare quindi unite le uova, il sale, la noce moscata, la farina e il parmigiano e mescolate fino ad ottenere un impasto morbido ed omogeneo.
Mettete tutto in una sac à poche e tenete da parte,
Preparate il Roux.
In una piccola casseruola fate fondere il burro, unite la farina e lasciatela tostare fino ad avere un roux biondo, aggiungete il latte mescolando velocemente con la frusta. Versatelo poco per volta, fino a che arriverete ad avere una salsa morbida e fluida. La quantità di latte negli ingredienti è indicativa, regolatevi ad occhio man mano che aggiungete. Quando vi sembra abbastanza fluida, liscia e omogenea, è pronta, dovrà essere praticamente una besciamella un po' più liquida.
Regolate di sale e aggiungete un pizzico di noce moscata. Tenete in caldo, coperta a contatto con un poco di pellicola.
Ora fondete il burro insieme allo spicchio d'aglio e al ciuffetto di salvia, fate che si brunisca leggermente.
In una capace pentola portate a bollore dell'acqua, salate e poi prendete la sac à poche con l'impasto di zucca e tagliatele la punta alla misura che ritenete adatta a formare gli gnocchi, poi, armate di un coltello, spremete la sac à poche sulla pentola in leggera ebollizione, tagliando man mano l'impasto che ne esce e formando gli gnocchi. Inumidite il coltello nell'acqua ad ogni taglio, così non avrete problemi, l'impasto non gli si appiccicherà.
Lasciateli cadere nell'acqua bollente e aspettate che tornino a galla.
Prelevateli con la schiumarola e adagiateli nel piatti dove avrete prima messo un leggero strato di roux, condite con un cucchiaio del burro che avete fuso e completate con una generosa grattugiata di ricotta affumicata.
Sarà il tocco che smorzerà il gusto dolce della zucca, in un connubio perfetto.
Buon appetito!!
AIFB
Calendario del Cibo italiano
dolci al cucchiaio
dolci e dessert
Bunet alle nocciole
Oggi, per il Calendario del Cibo Italiano sempre in riferimento al progetto della Associazione Italiana Food Blogger è la giornata dedicata alla Nocciola Tonda Gentile del Piemonte.
A raccontarci tutto quello che la riguarda sarà Fausta del blog Caffè col Cioccolato quindi non perdetevi il suo articolo perchè sarà molto interessante.
Amo molto le nocciole, le uso spesso in cucina, sia nel dolce che nel salato, in particolare quelle del Piemonte. Non so se vi è mai capitato di andare nelle Langhe. Si gode di un paesaggio meraviglioso, colline coperte, tappezzate di vigneti e di piantagioni di alberi di nocciole. Un colpo d'occhio davvero unico!
Quando mi capita di andarci,non manco mai di comprare le nocciole, e molto altro a dire il vero....quelle zone offrono tantissime specialità, per non parlare del vino...
Il mio contributo a questa giornata è una variante di un classico piemontese, il Bonet, o il Bunet come si dice in quelle zone. Un dolce meraviglioso, se amate caffè e amaretti. Io ve lo propongo con le nocciole, e ve lo consiglio caldamente. Avevo trovato questa ricetta anni fa su Sale & Pepe e mi ha conquistato.
E' di una facilità disarmante, si fa in un attimo, basta avere attenzione per la cottura ed è sempre bene farlo la sera prima per dargli il tempo di assestare i sapori e di compattarsi bene.
BONET (O BUNET) ALLE NOCCIOLE
A raccontarci tutto quello che la riguarda sarà Fausta del blog Caffè col Cioccolato quindi non perdetevi il suo articolo perchè sarà molto interessante.
Amo molto le nocciole, le uso spesso in cucina, sia nel dolce che nel salato, in particolare quelle del Piemonte. Non so se vi è mai capitato di andare nelle Langhe. Si gode di un paesaggio meraviglioso, colline coperte, tappezzate di vigneti e di piantagioni di alberi di nocciole. Un colpo d'occhio davvero unico!
Quando mi capita di andarci,non manco mai di comprare le nocciole, e molto altro a dire il vero....quelle zone offrono tantissime specialità, per non parlare del vino...
Il mio contributo a questa giornata è una variante di un classico piemontese, il Bonet, o il Bunet come si dice in quelle zone. Un dolce meraviglioso, se amate caffè e amaretti. Io ve lo propongo con le nocciole, e ve lo consiglio caldamente. Avevo trovato questa ricetta anni fa su Sale & Pepe e mi ha conquistato.
E' di una facilità disarmante, si fa in un attimo, basta avere attenzione per la cottura ed è sempre bene farlo la sera prima per dargli il tempo di assestare i sapori e di compattarsi bene.
BONET (O BUNET) ALLE NOCCIOLE
(da Sale e
Pepe)
1/2 litro latte intero
100 g nocciola Tonda Gentile delle
Langhe (tostate)
100 g zucchero
50 g zucchero per il caramello
3 cucchiai caffè ristretto
3 cucchiai Rhum
60 gr amaretti secchi
4 uova
2 tuorli
Preparate il caramello con 50 gr di zucchero e un cucchiaio d'acqua.
Una volta pronto, caramellate uno stampo da plumcake da 1 litro e lasciate raffreddare.
Tritate finemente le nocciole tostate con un cucchiaio di zucchero, fino quasi a farle diventare pasta, facendo però attenzione che non si surriscaldino troppo, quindi fatelo azionando il cutter ad intermittenza.
Tritate bene gli amaretti fino a ridurli in una polvere abbastanza fine, non devono esserci pezzi più grossi.
Portate il latte a ebollizione, una volta caldo, unite i 100 grammi di zucchero e mescolate per farlo sciogliere completamente.
In una ciotola sbattete le uova e i tuorli senza incorporare aria, quando sono ben amalgamati, aggiungete gli amaretti, le nocciole tritate, il caffè molto ristretto e il liquore.
Mescolate di nuovo con la frusta in modo che tutto sia perfettamente liscio e amalgamato, soprattutto il trito di nocciole. Dovrete avere un composto senza nessun tipo di grumi.
Versate il latte caldo sul composto, date una ulteriore mescolata e tasferitelo nello stampo caramellato ormai freddo.
Cuocet e a bagnomaria a 170° controllando che l'acqua del bagno non vada mai in ebollizione, e che arrivi a metà dello stampo.
Col mio forno ci sono voluti un po' di più di 50 minuti. E' comunque pronto quando è resistente al tatto.
Toglietelo dal forno e lasciatelo raffreddare nel suo bagnomaria, quindi mettetelo in frigorifero fino al momento di servire.
Sformatelo in un piatto che possa contenere anche il suo caramello.
3 cucchiai caffè ristretto
3 cucchiai Rhum
60 gr amaretti secchi
4 uova
2 tuorli
Preparate il caramello con 50 gr di zucchero e un cucchiaio d'acqua.
Una volta pronto, caramellate uno stampo da plumcake da 1 litro e lasciate raffreddare.
Tritate finemente le nocciole tostate con un cucchiaio di zucchero, fino quasi a farle diventare pasta, facendo però attenzione che non si surriscaldino troppo, quindi fatelo azionando il cutter ad intermittenza.
Tritate bene gli amaretti fino a ridurli in una polvere abbastanza fine, non devono esserci pezzi più grossi.
Portate il latte a ebollizione, una volta caldo, unite i 100 grammi di zucchero e mescolate per farlo sciogliere completamente.
In una ciotola sbattete le uova e i tuorli senza incorporare aria, quando sono ben amalgamati, aggiungete gli amaretti, le nocciole tritate, il caffè molto ristretto e il liquore.
Mescolate di nuovo con la frusta in modo che tutto sia perfettamente liscio e amalgamato, soprattutto il trito di nocciole. Dovrete avere un composto senza nessun tipo di grumi.
Versate il latte caldo sul composto, date una ulteriore mescolata e tasferitelo nello stampo caramellato ormai freddo.
Cuocet e a bagnomaria a 170° controllando che l'acqua del bagno non vada mai in ebollizione, e che arrivi a metà dello stampo.
Col mio forno ci sono voluti un po' di più di 50 minuti. E' comunque pronto quando è resistente al tatto.
Toglietelo dal forno e lasciatelo raffreddare nel suo bagnomaria, quindi mettetelo in frigorifero fino al momento di servire.
Sformatelo in un piatto che possa contenere anche il suo caramello.
Semplice no? Provatelo!
AIFB
antipasti
Calendario del Cibo italiano
pesce
Oggi giornata dedicata al polpo, sempre nel quadro del Calendario del Cibo Italiano
progetto pensato dalla Associazione Italiana Food Blogger e il relatore su questo argomento sarà Claudio Aloisio, del blog La cucina di Claudio.
Io, come contributo, voglio riproporre una vecchia ricetta marinara portata fino a noi dalla tradizione ligure, in particolare di Portovenere. Una ricetta che caratterizzava la vita di bordo delle lente navigazioni costiere.
Le imbarcazioni da lavoro che partivano da Portovenere navigando sotto costa alla volta di Genova o di Livorno, necessitavano sempre di abbondante zavorra facile da maneggiare e da scaricare all'occorrenza, quindi i marinai addetti, gli zavorristi appunto, andavano alla ricerca di pietre e quelle che le onde non riuscivano a spingere fin sulla battigia erano le più adatte. Pietre consumate e liscissime, ovviamente abbondanti lungo il litorale, che rappresentavano la soluzione migliore e più economica.
Andando a raccogliere pietre, gli zavorristi si imbattevano in numerosi polpi che vivevano fra gli scogli, li catturavano e li portavano a bordo. Li veniva fatto questo paté molto sfizioso e saporito che si conservava senza problemi durante la navigazione e che i marinai consumavano spalmato sulle gallette.
Il polpo è poi motivo di leggende in Liguria. A Tellaro, molto vicino a Portovenere, un piccolo, meraviglioso borgo marinaro arroccato su una scogliera, un luogo dove il tempo sembra essersi fermato, c'è una bellissima chiesa che si protende verso il mare, è dedicata a San Giorgio Martire ed è detta "del polpo" per la leggenda che si tramanda da secoli. Se osservate bene le sue mura, vi accorgerete che in qualche angolo c'è una targa con un polpo in marmo per ricordare che fu proprio un polpo a salvare il paese dai pirati.
La leggenda dice che un bambino, mentre giocava in riva al mare, un giorno si imbatté in un polpo ferito, lui lo prese e lo curò a lungo e fra i due nacque una sorta di amicizia, ma il polpo, una volta guarito, riprese il mare.
Alle origini Tellaro era solo un avamposto su una costa impervia. Il suo compito era difendere il retroterra dai pericoli provenienti dal mare, e quando si profilava un pericolo, o un assalto dei pirati, a Tellaro suonavano le campane e gli abitanti si preparavano a resistere. Ma una notte di tempesta intorno al 1660, così dice la leggenda, Tellaro dormiva tranquilla e nessuno si accorse che i pirati stavano per attaccare ma mentre si avvicinavano alla riva, dalle acque uscì un enorme polpo che arrampicandosi sul campanile della chiesa iniziò a suonare le campane dando l'allarme. Gli abitanti, messi in allarme dallo scampanio , riuscirono a respingere i pirati e alla fine trovarono l'enorme polpo ancora appeso alle funi campanarie. E si accorsero che era quello che mesi prima era stato curato dal bambino.
Da allora in segno di gratitudine il polpo viene celebrato ovunque. Nelle storie, nei racconti mormorati sugli scogli, sugli stemmi e i bassorilievi all'ingresso delle case e, purtroppo per lui,
anche in punta di forchetta.
Ecco dunque che lo celebra anche questa ricetta, che vi consiglio caldamente di provare.
Polpo degli zavorristi
Il polpo degli zavorristi
Oggi giornata dedicata al polpo, sempre nel quadro del Calendario del Cibo Italiano
progetto pensato dalla Associazione Italiana Food Blogger e il relatore su questo argomento sarà Claudio Aloisio, del blog La cucina di Claudio.
Io, come contributo, voglio riproporre una vecchia ricetta marinara portata fino a noi dalla tradizione ligure, in particolare di Portovenere. Una ricetta che caratterizzava la vita di bordo delle lente navigazioni costiere.
Le imbarcazioni da lavoro che partivano da Portovenere navigando sotto costa alla volta di Genova o di Livorno, necessitavano sempre di abbondante zavorra facile da maneggiare e da scaricare all'occorrenza, quindi i marinai addetti, gli zavorristi appunto, andavano alla ricerca di pietre e quelle che le onde non riuscivano a spingere fin sulla battigia erano le più adatte. Pietre consumate e liscissime, ovviamente abbondanti lungo il litorale, che rappresentavano la soluzione migliore e più economica.
Andando a raccogliere pietre, gli zavorristi si imbattevano in numerosi polpi che vivevano fra gli scogli, li catturavano e li portavano a bordo. Li veniva fatto questo paté molto sfizioso e saporito che si conservava senza problemi durante la navigazione e che i marinai consumavano spalmato sulle gallette.
Il polpo è poi motivo di leggende in Liguria. A Tellaro, molto vicino a Portovenere, un piccolo, meraviglioso borgo marinaro arroccato su una scogliera, un luogo dove il tempo sembra essersi fermato, c'è una bellissima chiesa che si protende verso il mare, è dedicata a San Giorgio Martire ed è detta "del polpo" per la leggenda che si tramanda da secoli. Se osservate bene le sue mura, vi accorgerete che in qualche angolo c'è una targa con un polpo in marmo per ricordare che fu proprio un polpo a salvare il paese dai pirati.
La leggenda dice che un bambino, mentre giocava in riva al mare, un giorno si imbatté in un polpo ferito, lui lo prese e lo curò a lungo e fra i due nacque una sorta di amicizia, ma il polpo, una volta guarito, riprese il mare.
Alle origini Tellaro era solo un avamposto su una costa impervia. Il suo compito era difendere il retroterra dai pericoli provenienti dal mare, e quando si profilava un pericolo, o un assalto dei pirati, a Tellaro suonavano le campane e gli abitanti si preparavano a resistere. Ma una notte di tempesta intorno al 1660, così dice la leggenda, Tellaro dormiva tranquilla e nessuno si accorse che i pirati stavano per attaccare ma mentre si avvicinavano alla riva, dalle acque uscì un enorme polpo che arrampicandosi sul campanile della chiesa iniziò a suonare le campane dando l'allarme. Gli abitanti, messi in allarme dallo scampanio , riuscirono a respingere i pirati e alla fine trovarono l'enorme polpo ancora appeso alle funi campanarie. E si accorsero che era quello che mesi prima era stato curato dal bambino.
Da allora in segno di gratitudine il polpo viene celebrato ovunque. Nelle storie, nei racconti mormorati sugli scogli, sugli stemmi e i bassorilievi all'ingresso delle case e, purtroppo per lui,
anche in punta di forchetta.
Ecco dunque che lo celebra anche questa ricetta, che vi consiglio caldamente di provare.
Polpo degli zavorristi
1,5
kg. di polpo
3 spicchi d’aglio
2 cucchiai di capperi sott'aceto
2 cucchiai di capperi sott'aceto
mezzo bicchiere di vino bianco
1 grosso ciuffo di prezzemolo
olio extravergine d’oliva
aceto bianco q.b.
sale
pepe nero macinato al momento
Mettete a cuocere il polpo, dopo averlo lavato ed eviscerato, in un tegame a fondo spesso, o meglio ancora di coccio. Bagnatelo con il vino, aggiungete uno spicchio d'aglio, coprite il tegame e lasciatelo andare a fuoco lento. Non aggiungete altro liquido, ci penserà il polpo stesso a rilasciare il suo.
aceto bianco q.b.
sale
pepe nero macinato al momento
Mettete a cuocere il polpo, dopo averlo lavato ed eviscerato, in un tegame a fondo spesso, o meglio ancora di coccio. Bagnatelo con il vino, aggiungete uno spicchio d'aglio, coprite il tegame e lasciatelo andare a fuoco lento. Non aggiungete altro liquido, ci penserà il polpo stesso a rilasciare il suo.
Quando è tenero, spegnete il fuoco e
lasciatelo intiepidire poi adagiatelo su un tagliere ed eliminate tutta la pelle e le ventose. Man mano che lo liberate da pelle e ventose, mettete i pezzi in una ciotola, o una pentola, in cui avrete messo almeno un litro d' acqua e un bicchiere di aceto bianco. Questa è la proporzione, 1 litro acqua/1 bicchiere aceto. Quindi regolatevi in base alla quantità d'acqua che occorrerà perchè il polpo sia ben coperto di liquido.
Lasciatelo a bagno una decina di minuti, dopodiché fatelo a pezzetti piccoli, mettetelo nel frullatore e frullatelo ad intermittenza, controllando che diventi della consistenza di un paté. Tenetelo da parte.
Tritate finissimamente l'aglio, il prezzemolo e i capperi ben sgocciolati.
In una larga padella scaldate un goccio d'olio extravergine d'oliva, aggiungete il trito e lasciatelo soffriggere leggermente, quindi unite il paté di polpo e mescolate molto bene, con pazienza affinché si amalgamino i sapori, sfumate il tutto con un paio di cucchiai di aceto bianco, regolate di sale, aggiungete ancora un filo d'olio se vi sembra necessario e date una generosa macinata di pepe nero.
Servitelo, sia tiepido che freddo, con crostini di pane.
Per la ricetta del Calendario, l'ho volutamente lasciato un po' più rustico, ma se preferite la consistenza del paté, frullatelo a lungo, poi procedete allo stesso modo e alla fine compattatelo bene.
Il risultato sarà come questo:
Un modo un po' diverso di cucinare il polpo, ma altrettanto soddisfacente!
AIFB
Calendario del Cibo italiano
carne
Favorites
maiale
secondi
Si fa presto a dire mela, ma lo sapete quante varietà di mele esistono al mondo? Oltre settemila e di queste, mille solo in Italia. Abbiamo un numero elevatissimo di specie distribuite tra le regioni del Nord, del Centro e del Sud, isole comprese, anche se quelle coltivate oggi non sono più del 10% di una lunga lista.
E anche se noi siamo stati abituati dalla grande distribuzione a scegliere quasi sempre fra quei sei o sette tipi, ogni regione ne conta a dozzine. Certo, quelle del fruttivendolo o del supermercato sono belle, grosse dai colori vividi, ma non sempre bello è sinonimo di buono, purtroppo. Le regole del profitto fanno sì che chi gestisce e decide il mercato quasi sempre preferisca il prodotto accattivante alla vista, facilmente stoccabile e adatto a lunghi spostamenti, magari completamente insapore, a quello più ricco di vitamine e di gusto.
Dovremmo tutti cercare di cambiare i modelli di consumo, dando la priorità alla qualità e alla tutela della salute, rispettando anche la stagionalità, e anche i coltivatori dovrebbero modificare i loro modelli di produzione per fornire prodotti sani e ricchi di sapore, senza alterare l'ambiente della campagna, ma temo che non riuscirò mai a vedere un tale cambiamento.
Ora, un grande patrimonio resta limitato in ambito regionale, dimenticato.
Qualche anno fa, in una fiera autunnale di un piccolissimo paese dell'alessandrino, Frascaro, ho visto in bella mostra una quantità incredibile di mele, tutte del Piemonte e tutte sconosciute.
Per darvi una idea , solo per questa specifica regione, cito da un libercolo di Slow Food:
"La Grigia di Torriana è tondeggiante, leggermente schiacciata, gialla, ruvida e rugginosa; la Buras è parente delle grigie, ma più simile alle renette; la Runsè è inconfondibile per il colore rosso vinoso e la buccia lucente; la Gamba Fina ha forma appiattita, colore rosso scuro e polpa bianca; la Magnana è piccola e rossa; la Dominici è grande, un po’ allungata, con la buccia gialla e leggermente ruvida e la polpa color crema; la Carla è piccola, irregolare, giallo-paglierino screziata di rosa; la Calvilla è la più aristocratica: bella, aromatica, profumata, ma molto delicata (delle 50 tipologie di Calville esistenti a fine Ottocento, ne sono sopravvissute sei: le migliori sono la Bianca e la Rossa d’Inverno)"
E questo solo per alcune delle mele piemontesi, immaginatevi lo stesso, se non di più, per le altre regioni e avrete un panorama infinito di quanta ricchezza di varietà abbiamo e che non coltiviamo perchè poco remunerative, oltre a non conoscerle neppure.
La mela, un frutto particolarmente ricco di vitamine e sali minerali, dal potere antiossidante, fornisce una dose discreta di vitamina C e di potassio, è fonte di fibre, solubili e insolubili, fra esse la pectina, il potente gelatinizzante che ben conosciamo, usato anche per le marmellate, in grado pure di contribuire ad abbassare il colesterolo.
Insomma il detto una mela al giorno toglie il medico di torno, ha un fondo di verità.
Da sempre presente nella narrativa, nella mitologia, la mela è il simbolo di New York, viene posta sulla testa del figlio di Gugliemo Tell, Newton intuì la legge di gravitazione universale a causa di una mela che gli cadde sulla testa, era d'oro la mela che Paride diede in premio ad Afrodite, e si potrebbe continuare a lungo con gli esempi di quanto questo frutto sia presente da sempre...a partire da Adamo ed Eva...
Tutto questo per dirvi che oggi è la giornata nazionale dedicata a questo benefico frutto dal Calendario del Cibo Italiano progetto portato avanti dalla AIFB e che Ilaria del blog Soffici sarà l' ambasciatrice della giornata. Sono sicura che grazie al suo articolo scopriremo tantissime cose sulle mele, sulle loro proprietà e sul loro utilizzo.
Il mio contributo a questa giornata è un arrosto.
La mela è un frutto molto versatile e, nella peculiarità delle diverse specie, trovo che ben si adatti alla cucina salata e le utilizzo spesso. Come in questa ricetta:
Arista in cocotte con scalogni e mele
1 kg circa arista di maiale
200 g pancetta liscia, tesa
3 grosse mele Golden
1 bicchiere di vino bianco
6 grossi scalogni
2 spicchi d'aglio
1 rametto di rosmarino
2 foglie di alloro
1 cucchiaino di finocchietto selvatico in polvere (facoltativo)
olio e.v. d'oliva
una noce di burro
sale, pepe nero di mulinello
Cercate un bel pezzo intero di arista di maiale, lavatelo asciugatelo bene, poi praticate dei tagli trasversali, intervallati fra loro, su tutta la superficie , ma senza arrivare del tutto al fondo. Create delle specie di tasche.
Lavate e asciugate il rosmarino, tritatelo finemente con l'aglio.
In ognuno dei tagli effettuati inserite una fetta di pancetta e un poco del trito di rosmarino e aglio e un pizzico di finocchietto selvatico.
ricomponete il pezzo di arista compimendolo il più possibile in modo che le tasche si chiudano bene, quindi bardatelo con la pancetta rimasta e legatelo strettamente in modo da chiudere ulteriormente i tagli.
Ponete sul fuoco l'apposita retina spargifiamma e in una cocotte, o una pentola per le lunghe cotture, tipo lavecc di pietra ollare, o una Le Creuset per intenderci, scaldate un goccio d'olio e lasciateci fondere la noce di burro, aggiungete l'alloro e fate rosolare da tutti i lati la carne bardata.
Una volta che è ben rosolata, regolate di sale e di pepe, quindi sfumate con il vino bianco, lasciate evaporare, aggiungete poca acqua calda, abbassate il fuoco e fate cuocere, coperta, per circa un'ora e mezza rigirandola un paio di volte e controllando spesso che il fondo non si asciughi troppo, nel qual caso, aggiungete un poco di acqua calda per volta.
Mentre cuoce la carne, pulite gli scalogni, lasciateli interi. Lavate e asciugate le mele con la buccia, dividetele a metà, da ogni metà ricavate tre spicchi, eliminate i semi.
Trascorso il tempo, controllate la pentola, aggiungete ancora dell'acqua calda, e unite sia gli scalogni che le mele a spicchi. Portate a cottura a fuoco basso, ci vorranno ancora mezz'ora, quaranta mimuti più o meno. Mele e scalogni dovranno rimanere per la maggior parte interi, anche se qualcuno si disferà un poco. Provatene la cottura con un forchettone, o ancor meglio, se avete un termometro da arrosti, infilatelo nella carne e controllate che la cottura al cuore sia intorno ai 72°.
Spegnete, lasciate riposare l'arista per qualche minuto, quindi affettatela e servitela accompagnata dalle mele e dagli scalogni cotti.
Confesso che non cucino spesso l'arista, è un taglio di carne di maiale che trovo abbastanza asciutta e stopposa, e siccome non posso usare il metodo della cottura a bassa temperatura, cerco di ovviare in questo modo. Infatti, la pancetta inserita all'interno e la bardatura la ammorbidiscono piacevolmente.
Ho scelto di usare le mele Golden che non hanno la nota acidula, ma potete usare la qualità che preferite, ovviamente.
Arista in cocotte con scalogni e mele
Si fa presto a dire mela, ma lo sapete quante varietà di mele esistono al mondo? Oltre settemila e di queste, mille solo in Italia. Abbiamo un numero elevatissimo di specie distribuite tra le regioni del Nord, del Centro e del Sud, isole comprese, anche se quelle coltivate oggi non sono più del 10% di una lunga lista.
E anche se noi siamo stati abituati dalla grande distribuzione a scegliere quasi sempre fra quei sei o sette tipi, ogni regione ne conta a dozzine. Certo, quelle del fruttivendolo o del supermercato sono belle, grosse dai colori vividi, ma non sempre bello è sinonimo di buono, purtroppo. Le regole del profitto fanno sì che chi gestisce e decide il mercato quasi sempre preferisca il prodotto accattivante alla vista, facilmente stoccabile e adatto a lunghi spostamenti, magari completamente insapore, a quello più ricco di vitamine e di gusto.
Dovremmo tutti cercare di cambiare i modelli di consumo, dando la priorità alla qualità e alla tutela della salute, rispettando anche la stagionalità, e anche i coltivatori dovrebbero modificare i loro modelli di produzione per fornire prodotti sani e ricchi di sapore, senza alterare l'ambiente della campagna, ma temo che non riuscirò mai a vedere un tale cambiamento.
Ora, un grande patrimonio resta limitato in ambito regionale, dimenticato.
Qualche anno fa, in una fiera autunnale di un piccolissimo paese dell'alessandrino, Frascaro, ho visto in bella mostra una quantità incredibile di mele, tutte del Piemonte e tutte sconosciute.
Per darvi una idea , solo per questa specifica regione, cito da un libercolo di Slow Food:
"La Grigia di Torriana è tondeggiante, leggermente schiacciata, gialla, ruvida e rugginosa; la Buras è parente delle grigie, ma più simile alle renette; la Runsè è inconfondibile per il colore rosso vinoso e la buccia lucente; la Gamba Fina ha forma appiattita, colore rosso scuro e polpa bianca; la Magnana è piccola e rossa; la Dominici è grande, un po’ allungata, con la buccia gialla e leggermente ruvida e la polpa color crema; la Carla è piccola, irregolare, giallo-paglierino screziata di rosa; la Calvilla è la più aristocratica: bella, aromatica, profumata, ma molto delicata (delle 50 tipologie di Calville esistenti a fine Ottocento, ne sono sopravvissute sei: le migliori sono la Bianca e la Rossa d’Inverno)"
E questo solo per alcune delle mele piemontesi, immaginatevi lo stesso, se non di più, per le altre regioni e avrete un panorama infinito di quanta ricchezza di varietà abbiamo e che non coltiviamo perchè poco remunerative, oltre a non conoscerle neppure.
La mela, un frutto particolarmente ricco di vitamine e sali minerali, dal potere antiossidante, fornisce una dose discreta di vitamina C e di potassio, è fonte di fibre, solubili e insolubili, fra esse la pectina, il potente gelatinizzante che ben conosciamo, usato anche per le marmellate, in grado pure di contribuire ad abbassare il colesterolo.
Insomma il detto una mela al giorno toglie il medico di torno, ha un fondo di verità.
Da sempre presente nella narrativa, nella mitologia, la mela è il simbolo di New York, viene posta sulla testa del figlio di Gugliemo Tell, Newton intuì la legge di gravitazione universale a causa di una mela che gli cadde sulla testa, era d'oro la mela che Paride diede in premio ad Afrodite, e si potrebbe continuare a lungo con gli esempi di quanto questo frutto sia presente da sempre...a partire da Adamo ed Eva...
Tutto questo per dirvi che oggi è la giornata nazionale dedicata a questo benefico frutto dal Calendario del Cibo Italiano progetto portato avanti dalla AIFB e che Ilaria del blog Soffici sarà l' ambasciatrice della giornata. Sono sicura che grazie al suo articolo scopriremo tantissime cose sulle mele, sulle loro proprietà e sul loro utilizzo.
Il mio contributo a questa giornata è un arrosto.
La mela è un frutto molto versatile e, nella peculiarità delle diverse specie, trovo che ben si adatti alla cucina salata e le utilizzo spesso. Come in questa ricetta:
Arista in cocotte con scalogni e mele
1 kg circa arista di maiale
200 g pancetta liscia, tesa
3 grosse mele Golden
1 bicchiere di vino bianco
6 grossi scalogni
2 spicchi d'aglio
1 rametto di rosmarino
2 foglie di alloro
1 cucchiaino di finocchietto selvatico in polvere (facoltativo)
olio e.v. d'oliva
una noce di burro
sale, pepe nero di mulinello
Cercate un bel pezzo intero di arista di maiale, lavatelo asciugatelo bene, poi praticate dei tagli trasversali, intervallati fra loro, su tutta la superficie , ma senza arrivare del tutto al fondo. Create delle specie di tasche.
Lavate e asciugate il rosmarino, tritatelo finemente con l'aglio.
In ognuno dei tagli effettuati inserite una fetta di pancetta e un poco del trito di rosmarino e aglio e un pizzico di finocchietto selvatico.
ricomponete il pezzo di arista compimendolo il più possibile in modo che le tasche si chiudano bene, quindi bardatelo con la pancetta rimasta e legatelo strettamente in modo da chiudere ulteriormente i tagli.
Una volta che è ben rosolata, regolate di sale e di pepe, quindi sfumate con il vino bianco, lasciate evaporare, aggiungete poca acqua calda, abbassate il fuoco e fate cuocere, coperta, per circa un'ora e mezza rigirandola un paio di volte e controllando spesso che il fondo non si asciughi troppo, nel qual caso, aggiungete un poco di acqua calda per volta.
Mentre cuoce la carne, pulite gli scalogni, lasciateli interi. Lavate e asciugate le mele con la buccia, dividetele a metà, da ogni metà ricavate tre spicchi, eliminate i semi.
Trascorso il tempo, controllate la pentola, aggiungete ancora dell'acqua calda, e unite sia gli scalogni che le mele a spicchi. Portate a cottura a fuoco basso, ci vorranno ancora mezz'ora, quaranta mimuti più o meno. Mele e scalogni dovranno rimanere per la maggior parte interi, anche se qualcuno si disferà un poco. Provatene la cottura con un forchettone, o ancor meglio, se avete un termometro da arrosti, infilatelo nella carne e controllate che la cottura al cuore sia intorno ai 72°.
Spegnete, lasciate riposare l'arista per qualche minuto, quindi affettatela e servitela accompagnata dalle mele e dagli scalogni cotti.
Confesso che non cucino spesso l'arista, è un taglio di carne di maiale che trovo abbastanza asciutta e stopposa, e siccome non posso usare il metodo della cottura a bassa temperatura, cerco di ovviare in questo modo. Infatti, la pancetta inserita all'interno e la bardatura la ammorbidiscono piacevolmente.
Ho scelto di usare le mele Golden che non hanno la nota acidula, ma potete usare la qualità che preferite, ovviamente.
AIFB
Calendario del Cibo italiano
primi
Gnocchi di patate all'erba cipollina e chips di San Daniele
Reduce dalle tre prove per la sfida di settembre per MTChallenge, sono di nuovo qui a parlare di gnocchi e a riproporre una ricetta che mi è piaciuta parecchio. Lo faccio perchè oggi è la giornata dedicata espressamente agli gnocchi dal Calendario del Cibo a cura della Associazione Italiana Food Blogger e Susanna Canetti del blog Afrodita's Kitchen ne sarà la valida ambasciatrice.
E' domenica, non giovedì, giorno proverbialmente deputato, ma a un piatto di gnocchi non si dice mai di no. Mai. In nessun giorno della settimana. Senza contare che vedere e leggere tutte quelle bellissime ricette preparate delle blogger per la gara MTC, è semplicemente una istigazione a ripetere..... a me poi erano rimasti in mente certi gnocchi che avevo visto passare tempo fa nei piatti all'Antico Caffè Toran a San Daniele, e che non avevo più rifatto....
San Daniele è a pochi chilometri dal mio piccolo paese natale, e quando sono in Friuli non manco mai di farci una capatina per farmi una scorpacciata di prosciutto crudo. Mangiato lì, è tutta un'altra cosa. Ho provato varie volte a farmelo incartare per portarlo a casa e non c'è niente da fare, cambia sapore. Non mi sono mai spiegata il perchè. Anche abitando a 20 chilomentri, una volta a casa il sapore cambia. Per cui abbiamo rinunciato all'asporto, preferiamo degustarlo in loco.
Di solito si va ai Bintars, locale storico, segnalato anche da Slow Food, ma una sera che il locale aveva il tutto esaurito abbiamo ripiegato, per la prima volta, sull'Antico Caffè...
Normalmente la degustazione consiste in un enorme vassoio di prosciutto crudo, di cui puoi fare il bis se ce la fai, solitamente al fiocco, roseo e profumatissimo, accompagnato da sottoli e sottaceti e formaggio friulano semistagionato, annaffiato o dal Traminer o dal Tocai (Bianco Friulano), che io di solito preferisco,
ma lì, a differenza dei Bintars, era anche ristorante, non solo degusteria. Ricordo che mi aveva incuriosito un continuo via vai di piatti colmi di gnocchi verdi, e mi intrigavano parecchio ma non ero riuscita ad assaggiarli perchè ero talmente sazia che non mi sarebbe più entrato nemmeno uno spillo.
Con la mia solita faccia tosta, ho chiesto la ricetta e loro, gentilissimi, me l'hanno raccontata mentre io la scrivevo su un pezzetto di carta volante che, come spesso mi capita, ho dimenticato poi in una delle tante tasche del portafoglio, salvo poi ritrovarla abbastanza tempo dopo facendo pulizia di scontrini vari.....e ho pure corso il rischio di buttarla, perchè non mi ricordavo più che era la ricetta degli gnocchi verdi... Tipico per me...
comunque, eccoli, liscissimi e stavolta con l'uovo, alla maniera friulana. Perchè da noi si mette, patate asciutte o meno.
Gnocchi di patate all'erba cipollina e chips di San Daniele
1 kg patate possibilmente a pasta bianca, o comunque farinose
200 g farina
50 g erba cipollina
3 o 4 fette di prosciutto crudo di San Daniele
1 uovo
burro, una grossa noce
poco sale
Scaldate il forno a 180° ventilato. Su una teglia mettete un foglio di carta forno, stendetevi le fette di San Daniele e infornate. Cuocete nel MicroOnde la patate, preferibilmente di pezzatura il più possibile uguale, con la buccia, lavate e avvolte una per una in carta Scottex bagnata, in modo non si secchino. Lasciatele cuocere alla massima potenza (il mio raggiunge i 750 watt) rigirandole a metà cottura, finchè sarann morbide e cedevoli al tatto.
Spellatele e schiacciatele col passapatate direttamente sulla spianatoia leggermente infarinata, allargate un poco l'impasto per lasciarle evaporare un poco. Fate una fontana.
Frullate, o tritate nel tritatutto l'erba cipollina fino ad avere quasi una poltiglia abbastanza fine. Eliminate magari i fili che restano ancora troppo lunghi.
Unite l'erba cipollina frullata, un pizzico di sale e l'uovo, leggermente sbattuto, nel centro della fontana di patate e cominciate ad impastare bene perchè il tutto si distribuisca uniformemente. Pian piano unite la farina poca alla volta, lavorando con calma il composto anche con le mani, fino a che e la pasta è elastica e si lavora senza difficoltà.
Formate i soliti rotolini e tagliateli a tocchetti, se volete rigateli son un rigagnocchi.
Fondete il burro
Nel frattempo il prosciutto si sarà trasformato in chips belle croccanti, quindi togliete dal forno. Mettete un cucchiaio abbondante di burro fuso sul fondo di ogni piatto.
Cuocete gli gnocchi come sempre, io lo faccio pochi alla volta, praticamente a porzione, e quando vengono a galla prelevateli con una comoda schiumarola, metteteli nel piatto di servizio, aggiungete un altro cucchiaio scarso di burro fuso, mescolate delicatamente per non rompere gli gnocchi e sbriciolategli sopra una chips o più di San Daniele croccante..
Questi gnocchi li ho adottati da anni, piacciono sempre molto a tutti.
Magari si può sostituire il burro con una leggera fonduta di parmigiano, o anche di Salva cremasco, giusto per cambiare un poco, ma già così, semplici semplici, sono deliziosi.
E' domenica, non giovedì, giorno proverbialmente deputato, ma a un piatto di gnocchi non si dice mai di no. Mai. In nessun giorno della settimana. Senza contare che vedere e leggere tutte quelle bellissime ricette preparate delle blogger per la gara MTC, è semplicemente una istigazione a ripetere..... a me poi erano rimasti in mente certi gnocchi che avevo visto passare tempo fa nei piatti all'Antico Caffè Toran a San Daniele, e che non avevo più rifatto....
San Daniele è a pochi chilometri dal mio piccolo paese natale, e quando sono in Friuli non manco mai di farci una capatina per farmi una scorpacciata di prosciutto crudo. Mangiato lì, è tutta un'altra cosa. Ho provato varie volte a farmelo incartare per portarlo a casa e non c'è niente da fare, cambia sapore. Non mi sono mai spiegata il perchè. Anche abitando a 20 chilomentri, una volta a casa il sapore cambia. Per cui abbiamo rinunciato all'asporto, preferiamo degustarlo in loco.
Di solito si va ai Bintars, locale storico, segnalato anche da Slow Food, ma una sera che il locale aveva il tutto esaurito abbiamo ripiegato, per la prima volta, sull'Antico Caffè...
Normalmente la degustazione consiste in un enorme vassoio di prosciutto crudo, di cui puoi fare il bis se ce la fai, solitamente al fiocco, roseo e profumatissimo, accompagnato da sottoli e sottaceti e formaggio friulano semistagionato, annaffiato o dal Traminer o dal Tocai (Bianco Friulano), che io di solito preferisco,
ma lì, a differenza dei Bintars, era anche ristorante, non solo degusteria. Ricordo che mi aveva incuriosito un continuo via vai di piatti colmi di gnocchi verdi, e mi intrigavano parecchio ma non ero riuscita ad assaggiarli perchè ero talmente sazia che non mi sarebbe più entrato nemmeno uno spillo.
Con la mia solita faccia tosta, ho chiesto la ricetta e loro, gentilissimi, me l'hanno raccontata mentre io la scrivevo su un pezzetto di carta volante che, come spesso mi capita, ho dimenticato poi in una delle tante tasche del portafoglio, salvo poi ritrovarla abbastanza tempo dopo facendo pulizia di scontrini vari.....e ho pure corso il rischio di buttarla, perchè non mi ricordavo più che era la ricetta degli gnocchi verdi... Tipico per me...
comunque, eccoli, liscissimi e stavolta con l'uovo, alla maniera friulana. Perchè da noi si mette, patate asciutte o meno.
1 kg patate possibilmente a pasta bianca, o comunque farinose
200 g farina
50 g erba cipollina
3 o 4 fette di prosciutto crudo di San Daniele
1 uovo
burro, una grossa noce
poco sale
Scaldate il forno a 180° ventilato. Su una teglia mettete un foglio di carta forno, stendetevi le fette di San Daniele e infornate. Cuocete nel MicroOnde la patate, preferibilmente di pezzatura il più possibile uguale, con la buccia, lavate e avvolte una per una in carta Scottex bagnata, in modo non si secchino. Lasciatele cuocere alla massima potenza (il mio raggiunge i 750 watt) rigirandole a metà cottura, finchè sarann morbide e cedevoli al tatto.
Spellatele e schiacciatele col passapatate direttamente sulla spianatoia leggermente infarinata, allargate un poco l'impasto per lasciarle evaporare un poco. Fate una fontana.
Frullate, o tritate nel tritatutto l'erba cipollina fino ad avere quasi una poltiglia abbastanza fine. Eliminate magari i fili che restano ancora troppo lunghi.
Unite l'erba cipollina frullata, un pizzico di sale e l'uovo, leggermente sbattuto, nel centro della fontana di patate e cominciate ad impastare bene perchè il tutto si distribuisca uniformemente. Pian piano unite la farina poca alla volta, lavorando con calma il composto anche con le mani, fino a che e la pasta è elastica e si lavora senza difficoltà.
Formate i soliti rotolini e tagliateli a tocchetti, se volete rigateli son un rigagnocchi.
Fondete il burro
Nel frattempo il prosciutto si sarà trasformato in chips belle croccanti, quindi togliete dal forno. Mettete un cucchiaio abbondante di burro fuso sul fondo di ogni piatto.
Cuocete gli gnocchi come sempre, io lo faccio pochi alla volta, praticamente a porzione, e quando vengono a galla prelevateli con una comoda schiumarola, metteteli nel piatto di servizio, aggiungete un altro cucchiaio scarso di burro fuso, mescolate delicatamente per non rompere gli gnocchi e sbriciolategli sopra una chips o più di San Daniele croccante..
Questi gnocchi li ho adottati da anni, piacciono sempre molto a tutti.
Magari si può sostituire il burro con una leggera fonduta di parmigiano, o anche di Salva cremasco, giusto per cambiare un poco, ma già così, semplici semplici, sono deliziosi.
AIFB
Calendario del Cibo italiano
pollame
secondi
Rollé di faraona ai finferli
Oggi è il giorno degli arrosti arrotolati per il Calendario del Cibo Italiano a cura dellaAssociazione Italiana Food Blogger e Silvia Leoncini del blog La masca in cucina ce ne parla ampiamente nel suo articolo dedicato al questo interessante argomento.
L'arrosto arrotolato era il classico arrosto di casa mia, infatti mia madre ha scoperto, appena arrivati a Milano, che era un buon modo di cucinare la carne senza spendere molto. E in quegli anni sul finire del 1954 risparmiare era una necessità vitale. Non che lo facesse spesso, era l' arrosto delle occasioni particolari, quando c'era qualche ricorrenza da festeggiare. Lo comprava alle Fattorie Prealpine di Via S. Siro, quasi all'angolo di casa nostra, in zona Fiera, un negozio vecchio stile, una specie di vecchia posteria dove vendevano salumi, formaggi e anche la carne. Ricordo le montagne di mascarpone, messo nel banco a piramide, tutto rigato con la forchetta come decorazione, o i mastelli di mostarda, le grandi scatole di tonno e di sgombri, rosse e blu, le salsicce appese come collane, tutto veniva venduto sfuso, tutto. Lo zucchero veniva avvolto in un pacchetto di carta color avio, carta da zucchero appunto, con un movimento che arricciava il pacchetto a festoni, come fosse un grande raviolo a mezzaluna, e la pasta, certi bucatini lunghi, fasciati per metà in carta blu scuro, quasi copiativa, con l'etichetta che raffigurava il Vesuvio, il vino veniva misurato con il litro bollato, e travasato nella bottiglia che ti portavi da casa, persino le sigarette venivano vendute a numero....non c'erano tutte le normative asfissianti che ci sono oggi... un vivere completamente diverso...
Lo trovavi già bello arrotolato, legato come si deve e dovevi comprarlo alla cieca, perchè a prima vista non sapevi come sarebbe stato all'interno, se andava bene ti ritrovavi un pezzo di Fesa di spalla, e se andava male era Punta di petto, nervosa e grassa. Mia madre, devo ammettere, aveva imparato a scegliere il pezzo giusto, e quasi sempre ci azzeccava, ma io non ne potevo più di vitello arrotolato. Infatti, da sposata, ho quasi smesso di cucinarlo. Preferisco un bel pezzo intero, cotto al forno, che abbia una crosticina dorata e l'interno morbido e succoso, un piatto che mette d'accordo tutti.
Al contrario non disdegno le altre carni, faccio spesso il coniglio disossato e arrotolato, ripieno, e la faraona, carne molto apprezzata nella mia famiglia. Il mio cavallo di battaglia è un rotolo con le mele e il curry, ma qui si parla di cibo italiano, e allora ecco il mio contributo, che è pure di stagione...
Rollé di faraona ai finferli
1 faraona disossata
200 g salsiccia grossa a nastro
100 g pancetta liscia
500 g finferli
1 spicchio d'aglio
1 rametto di timo
1 bicchiere di vino bianco
sale, pepe
olio e.v. d'oliva
1 noce di burro
Fatevi disossare una faraona dal macellaio, o se preferite, fatelo direttamte voi. Eliminate eventuali residui di piume fiammeggiandola. Lavatela e asciugatela.
Appoggiatela su un tagliere, rivolta verso di voi dalla parte interna.
Salate, pepate e massaggiate l'interno, quindi ricopritelo con la pancetta liscia. Salvate un paio di fette, le userete poi.
Eliminate la pelle dalla salsiccia, appoggiatela sulla pancetta e con le mani schiacciatela in modo che si appiattisca e aderisca bene. Ora ripiegate verso l'interno la carne delle due estremità e arrotolate strettamente la faraona dalla parte più lunga. Legate bene il rotolo in modo che il contenuto non fuoriesca.
Scaldate un goccio d'olio insieme a una noce di burro dentro a una casseruola alta e capiente. Sminuzzte la due fette di pancetta tenute da parte e unitele al condimento, date una mescolata poi mettete a rosolare nella casseruola anche il rotolo di faraona, salatelo e pepatelo da tutti i lati, aggiungete lo spicchio d'aglio e un rametto di timo, quindi sfumate col vino bianco. Lasciate evaporare, aggiungete un poco di acqua calda, coprite e lasciate cuocere a fuoco lento per circa un'ora o poco più.
Mentre la faraona cuoce, pulite i funghi, elimnate la base dei gambi con un coltellino, quindi lavateli in acqua corrente per eliminare eventuali tracce di terra. Scolateli in un colapasta.
Dopo l'ora di cottura del rotolo, aggiungete nella pentola anche i funghi lavati e scolati.
Mescolate bene, aggiungete un altro po' di acqua calda se il fondo fosse troppo asciutto, regolate di sale e di pepe e portate a cottura.
Lasciate intiepidire il rotolo prima di eliminare lo spago e tagliarlo a fette.
Sevitelo sul suo letto di finferli e nappate le fette con un poco del fondo di cottura.
Bun appetito!
L'arrosto arrotolato era il classico arrosto di casa mia, infatti mia madre ha scoperto, appena arrivati a Milano, che era un buon modo di cucinare la carne senza spendere molto. E in quegli anni sul finire del 1954 risparmiare era una necessità vitale. Non che lo facesse spesso, era l' arrosto delle occasioni particolari, quando c'era qualche ricorrenza da festeggiare. Lo comprava alle Fattorie Prealpine di Via S. Siro, quasi all'angolo di casa nostra, in zona Fiera, un negozio vecchio stile, una specie di vecchia posteria dove vendevano salumi, formaggi e anche la carne. Ricordo le montagne di mascarpone, messo nel banco a piramide, tutto rigato con la forchetta come decorazione, o i mastelli di mostarda, le grandi scatole di tonno e di sgombri, rosse e blu, le salsicce appese come collane, tutto veniva venduto sfuso, tutto. Lo zucchero veniva avvolto in un pacchetto di carta color avio, carta da zucchero appunto, con un movimento che arricciava il pacchetto a festoni, come fosse un grande raviolo a mezzaluna, e la pasta, certi bucatini lunghi, fasciati per metà in carta blu scuro, quasi copiativa, con l'etichetta che raffigurava il Vesuvio, il vino veniva misurato con il litro bollato, e travasato nella bottiglia che ti portavi da casa, persino le sigarette venivano vendute a numero....non c'erano tutte le normative asfissianti che ci sono oggi... un vivere completamente diverso...
Lo trovavi già bello arrotolato, legato come si deve e dovevi comprarlo alla cieca, perchè a prima vista non sapevi come sarebbe stato all'interno, se andava bene ti ritrovavi un pezzo di Fesa di spalla, e se andava male era Punta di petto, nervosa e grassa. Mia madre, devo ammettere, aveva imparato a scegliere il pezzo giusto, e quasi sempre ci azzeccava, ma io non ne potevo più di vitello arrotolato. Infatti, da sposata, ho quasi smesso di cucinarlo. Preferisco un bel pezzo intero, cotto al forno, che abbia una crosticina dorata e l'interno morbido e succoso, un piatto che mette d'accordo tutti.
Al contrario non disdegno le altre carni, faccio spesso il coniglio disossato e arrotolato, ripieno, e la faraona, carne molto apprezzata nella mia famiglia. Il mio cavallo di battaglia è un rotolo con le mele e il curry, ma qui si parla di cibo italiano, e allora ecco il mio contributo, che è pure di stagione...
Rollé di faraona ai finferli
1 faraona disossata
200 g salsiccia grossa a nastro
100 g pancetta liscia
500 g finferli
1 spicchio d'aglio
1 rametto di timo
1 bicchiere di vino bianco
sale, pepe
olio e.v. d'oliva
1 noce di burro
Fatevi disossare una faraona dal macellaio, o se preferite, fatelo direttamte voi. Eliminate eventuali residui di piume fiammeggiandola. Lavatela e asciugatela.
Appoggiatela su un tagliere, rivolta verso di voi dalla parte interna.
Salate, pepate e massaggiate l'interno, quindi ricopritelo con la pancetta liscia. Salvate un paio di fette, le userete poi.
Eliminate la pelle dalla salsiccia, appoggiatela sulla pancetta e con le mani schiacciatela in modo che si appiattisca e aderisca bene. Ora ripiegate verso l'interno la carne delle due estremità e arrotolate strettamente la faraona dalla parte più lunga. Legate bene il rotolo in modo che il contenuto non fuoriesca.
Scaldate un goccio d'olio insieme a una noce di burro dentro a una casseruola alta e capiente. Sminuzzte la due fette di pancetta tenute da parte e unitele al condimento, date una mescolata poi mettete a rosolare nella casseruola anche il rotolo di faraona, salatelo e pepatelo da tutti i lati, aggiungete lo spicchio d'aglio e un rametto di timo, quindi sfumate col vino bianco. Lasciate evaporare, aggiungete un poco di acqua calda, coprite e lasciate cuocere a fuoco lento per circa un'ora o poco più.
Mentre la faraona cuoce, pulite i funghi, elimnate la base dei gambi con un coltellino, quindi lavateli in acqua corrente per eliminare eventuali tracce di terra. Scolateli in un colapasta.
Dopo l'ora di cottura del rotolo, aggiungete nella pentola anche i funghi lavati e scolati.
Mescolate bene, aggiungete un altro po' di acqua calda se il fondo fosse troppo asciutto, regolate di sale e di pepe e portate a cottura.
Lasciate intiepidire il rotolo prima di eliminare lo spago e tagliarlo a fette.
Sevitelo sul suo letto di finferli e nappate le fette con un poco del fondo di cottura.
Bun appetito!
AIFB
biscotti
Calendario del Cibo italiano
Biscottini di Prato ai datteri e cioccolato
eccomi qua, ancora a parlare di Calendario del Cibo Italiano il progetto della Associazione Italiana Food Blogger . Oggi Sara del blog http://www.pixelicious.it/ ci racconta tutto quello che c'è da sapere sui Biscottini di Prato.
E non chiamateli cantucci, per favore, i pratesi potrebbero aversene a male. Come il mio amico Gabriele detto il Tosco, pratese doc, che tutte le volte che si parlava di cantucci, puntualizzava sempre.
No - o si chiamano biscottini di Prato! La volete capire una buona volta? E mentre lo diceva arrivava anche il suo sorriso sornione accompagnato spesso da un pacchetto degli ambiti e apprezzatissimi biscottini del Mattei....grande e generoso Tosco!
Gabriele mi scuserà quindi se la versione che propongo come contributo di oggi, non è proprio ortodossa,
ma l'ho collaudata fin dal lontano 2006 e pubblicata su Coquinaria. Questi biscottini sono talmente piaciuti che ormai fanno parte delle mie ricette classiche e si sono sparsi nei mille rivoli culinari della rete. La ricetta originaria l'avevo presa da uno dei primi libri di Ernst Knam, appunto uscito proprio in quell'anno. L'Arte del dolce. Molto prima che diventasse una star tv. Però, nonostante la fama, anche oggi il suo è sempre lo stesso piccolo negozio di tanti anni fa, regno incontrastato di dolcezze di ogni tipo, per non parlare della pasticceria salata che lo ha reso famoso in città...
Nel corso degli anni non ho modificato molto, ho solo preferito evitare l'uso della ammoniaca per dolci, dato che riescono molto bene anche senza, e l'unica variazione è un goccio di essenza di vaniglia che aggiungo, se mi viene in mente mentre preparo l'impasto, altrimenti nemmeno quella.
Comunque fidatevi, sono davvero ottimi e non si resiste, uno tira l'altro, come le ciliegie...
Biscottini ai datteri, cioccolato e cannella
2 uova grandi
230 g zucchero semolato
300 g farina 00
100 g datteri denocciolati
70 g cioccolato fondente
1 cucchiaino scarso di cannella
10 g lievito per dolci
30 ml latte
1 cucchiaino estratto di vaniglia
poco zucchero a velo
Scaldate il forno a 170° ventilato.
Riducete il cioccolato in piccoli pezzi e fate lo stesso con i datteri.
Con le fruste elettriche, o con la planetaria, montate lungamenet le uova insieme allo zucchero finchè son belle gonfie e l'impasto, ricadendo "scrive" e aggiungete l'estratto di vaniglia
Setacciate insieme la farina, la cannella e il lievito.
Iniziate a incorporarla al composto poca alla volta mescolando con una spatola dall'alto verso il basso per non smontare tutto, aiutandovi con il latte.
Avrete un composto morbido, a questo punto aggiungete sia i datteri che il cioccolato.
Mescolate ancora per amalgamare tutto.
Foderate una teglia rettangolare con della carta da forno.
Poichè l'impasto sarà morbido, per maneggiarlo senza problemi mettete dello zucchero a velo su un foglio di alluminio, sporcatevi un po' le mani con lo stesso zucchero e formate dei piccoli salamotti, a me ne vengono sempre quattro, avendo cura che siano più o meno uguali di misura. Fateli rotolare nello zucchero a velo, appoggiateli ben distanziati sulla carta forno, pareggiateli e compattateli un poco con le mani affinchè poi al taglio abbiano la forma dei cantucci.
Mi raccomando, distanziateli bene perchè si allargano in cottura, e rischiate che diventino un intero blob.
La cottura. Io non inforno per la seconda volta, perchè a noi piace che restino un po' morbidi. Kanm parlava di cuocerli, lasciarli riposare fuori dal forno e poi abbassare la temperatura a 150°, tagliarli e rimetterli in forno.
Io, come dicevo, salto il secondo passaggio e li cuocio per circa mezz'ora o poco più, ma regolatevi col vostro forno. Che si sa, ogni forno è a sé.
Una volta sfornati, lasciate che il grosso del calore se ne vada, ma tagliateli senza indugiare troppo, in obliquo, con un coltello affilato.
Si fanno velocemente e sono davvero molto buoni. Durano parecchi giorni, conservati dentro a una scatola di latta e sono perfetti anche per la classica produzione di biscotti natalizi.
Provateci!
E non chiamateli cantucci, per favore, i pratesi potrebbero aversene a male. Come il mio amico Gabriele detto il Tosco, pratese doc, che tutte le volte che si parlava di cantucci, puntualizzava sempre.
No - o si chiamano biscottini di Prato! La volete capire una buona volta? E mentre lo diceva arrivava anche il suo sorriso sornione accompagnato spesso da un pacchetto degli ambiti e apprezzatissimi biscottini del Mattei....grande e generoso Tosco!
Gabriele mi scuserà quindi se la versione che propongo come contributo di oggi, non è proprio ortodossa,
ma l'ho collaudata fin dal lontano 2006 e pubblicata su Coquinaria. Questi biscottini sono talmente piaciuti che ormai fanno parte delle mie ricette classiche e si sono sparsi nei mille rivoli culinari della rete. La ricetta originaria l'avevo presa da uno dei primi libri di Ernst Knam, appunto uscito proprio in quell'anno. L'Arte del dolce. Molto prima che diventasse una star tv. Però, nonostante la fama, anche oggi il suo è sempre lo stesso piccolo negozio di tanti anni fa, regno incontrastato di dolcezze di ogni tipo, per non parlare della pasticceria salata che lo ha reso famoso in città...
Nel corso degli anni non ho modificato molto, ho solo preferito evitare l'uso della ammoniaca per dolci, dato che riescono molto bene anche senza, e l'unica variazione è un goccio di essenza di vaniglia che aggiungo, se mi viene in mente mentre preparo l'impasto, altrimenti nemmeno quella.
Comunque fidatevi, sono davvero ottimi e non si resiste, uno tira l'altro, come le ciliegie...
Biscottini ai datteri, cioccolato e cannella
2 uova grandi
230 g zucchero semolato
300 g farina 00
100 g datteri denocciolati
70 g cioccolato fondente
1 cucchiaino scarso di cannella
10 g lievito per dolci
30 ml latte
1 cucchiaino estratto di vaniglia
poco zucchero a velo
Scaldate il forno a 170° ventilato.
Riducete il cioccolato in piccoli pezzi e fate lo stesso con i datteri.
Con le fruste elettriche, o con la planetaria, montate lungamenet le uova insieme allo zucchero finchè son belle gonfie e l'impasto, ricadendo "scrive" e aggiungete l'estratto di vaniglia
Setacciate insieme la farina, la cannella e il lievito.
Iniziate a incorporarla al composto poca alla volta mescolando con una spatola dall'alto verso il basso per non smontare tutto, aiutandovi con il latte.
Avrete un composto morbido, a questo punto aggiungete sia i datteri che il cioccolato.
Mescolate ancora per amalgamare tutto.
Foderate una teglia rettangolare con della carta da forno.
Poichè l'impasto sarà morbido, per maneggiarlo senza problemi mettete dello zucchero a velo su un foglio di alluminio, sporcatevi un po' le mani con lo stesso zucchero e formate dei piccoli salamotti, a me ne vengono sempre quattro, avendo cura che siano più o meno uguali di misura. Fateli rotolare nello zucchero a velo, appoggiateli ben distanziati sulla carta forno, pareggiateli e compattateli un poco con le mani affinchè poi al taglio abbiano la forma dei cantucci.
Mi raccomando, distanziateli bene perchè si allargano in cottura, e rischiate che diventino un intero blob.
La cottura. Io non inforno per la seconda volta, perchè a noi piace che restino un po' morbidi. Kanm parlava di cuocerli, lasciarli riposare fuori dal forno e poi abbassare la temperatura a 150°, tagliarli e rimetterli in forno.
Io, come dicevo, salto il secondo passaggio e li cuocio per circa mezz'ora o poco più, ma regolatevi col vostro forno. Che si sa, ogni forno è a sé.
Una volta sfornati, lasciate che il grosso del calore se ne vada, ma tagliateli senza indugiare troppo, in obliquo, con un coltello affilato.
Si fanno velocemente e sono davvero molto buoni. Durano parecchi giorni, conservati dentro a una scatola di latta e sono perfetti anche per la classica produzione di biscotti natalizi.
Provateci!
AIFB
Calendario del Cibo italiano
memorie
E' iniziata la vendemmia, e Alice Del Re del blog Pane libri e nuvole sarà ambasciatrice nella giornata ad essa dedicata per il Calendario del Cibo Italiano a cura dell' Associazione Italiana Food Blogger
non perdetevi il suo articolo, perchè sarà molto interessante e completo, ed è sempre un piacere leggerla.
Non ho ricette legate a quell'evento o per meglio dire, non ho memoria di ricette specifiche che si facevano in occasione della vendemmia, posso solo contribuire a questa giornata condividendo quelli che sono i miei ricordi, il mio vissuto. Per cui vi porto con me, negli anni a cavallo fra il '50 e il '60, nel mio Friuli e ricordate che la vendemmia era, ed è tuttora, un rito, una tradizione che regge agli anni, che resiste alla meccanizzazione e che continua a riunire intere comunità. La vendemmia è l’apice di un lavoro durissimo, la sua fase finale, l’ultimo sforzo prima di vedere, di assaggiare il risultato: il vino.
Friuli è un mare chiuso fra passato e futuro, ed è in quel mare di vigneti, perfettamente allineati sugli argini delle strade, sulle colline moreniche, sui contrafforti delle montagne che sono nata, un tardo pomeriggio di dicembre.
Si partiva sempre dal Pinot grigio, che spesso viene definito impropriamente come un’uva bianca, ma non lo è, si tratta infatti di una derivazione del Pinot Nero e i suoi grappoli non sono proprio di colore chiaro
poi si passava al Merlot e al Cabernet Franc. Il Refosco dal peduncolo rosso venne dopo...
Le uve uccelline, quelle che stanno ai bordi dei boschi o al limitare dei confini della vigna, le teneva per ultime, per farle appassire.
Profumo di mosto e di ricordi
E' iniziata la vendemmia, e Alice Del Re del blog Pane libri e nuvole sarà ambasciatrice nella giornata ad essa dedicata per il Calendario del Cibo Italiano a cura dell' Associazione Italiana Food Blogger
non perdetevi il suo articolo, perchè sarà molto interessante e completo, ed è sempre un piacere leggerla.
Non ho ricette legate a quell'evento o per meglio dire, non ho memoria di ricette specifiche che si facevano in occasione della vendemmia, posso solo contribuire a questa giornata condividendo quelli che sono i miei ricordi, il mio vissuto. Per cui vi porto con me, negli anni a cavallo fra il '50 e il '60, nel mio Friuli e ricordate che la vendemmia era, ed è tuttora, un rito, una tradizione che regge agli anni, che resiste alla meccanizzazione e che continua a riunire intere comunità. La vendemmia è l’apice di un lavoro durissimo, la sua fase finale, l’ultimo sforzo prima di vedere, di assaggiare il risultato: il vino.
Friuli è un mare chiuso fra passato e futuro, ed è in quel mare di vigneti, perfettamente allineati sugli argini delle strade, sulle colline moreniche, sui contrafforti delle montagne che sono nata, un tardo pomeriggio di dicembre.
Friuli è vino. E la storia del vino in
questi territori ha inizio con la fondazione di Aquileia nel 181
a.c. grazie ai Romani, guerrieri, vignaioli e contadini allo stesso
tempo.
Da allora e fino ai nostri giorni è
stato tutto un susseguirsi di periodi di splendore produttivo
altrernati a periodi bui, ma sempre in
evoluzione.
Friuli è la memoria, le mie radici.
Dopo la scuola, a Milano, partivo per passare tutte
le mie estati con i nonni in quella grande casa dove ero nata...
L'orto, la pompa dell'acqua, il serraglio delle galline, l'albero di cachi nel mezzo del
cortile, quello di fichi neri dietro la vecchia stalla......e la
vigna nelle Grave. Mio nonno aveva un rapporto speciale con quella
distesa di viti. Ne curava ogni pianta con talmente tanta dedizione
che a volte mia nonna gli rimproverava di stare più nella vigna che
nella sua casa.
Adoravo mio nonno, era uno di quei
saggi che sapevano avvolgerti con i loro racconti incredibili fatti
di guerra, di fame, di difficoltà e povertà, di terra. Era bello mio nonno, alto e magro, le mani affusolate ma estremamente
callose, irrimediabilmente rovinate dal tanto lavoro e il volto cotto dal sole dove
guizzavano due occhi un po' grigi e un po'azzurri, curiosi.
Un contadino friulano che trasmetteva
una grande tranquillità interiore, che amava la campagna e il suo
lavoro. Quando mi raccontava la grandiosità della natura, il
susseguirsi delle stagioni, il significato di certi suoi gesti e il
perché delle cose, si infervorava talmente che perdeva la cognizione del tempo.
Aveva una forza incredibile, chiamavano
solo lui a San Daniele, l'unico che riusciva senza sforzo apparente a falciare un campo coltivato
con un foraggio particolare, per i maiali, molto duro da tagliare. Partiva all'alba con
la sua bicicletta, la falce a bandoliera, e una borsa di tela dove
teneva il cote per affilare la lama, polenta e formaggio come pranzo e la fiaschetta dell'acqua, tornava al tramonto, in tempo per rigovernare le bestie, mungere le vacche e portare il latte alla latteria sociale....
Dopo la Grande Guerra, sul finire degli anni '20, la vita contadina in
Friuli era molto difficile e per mio nonno lo era anche di più.
Nella famiglia patriarcale di allora si viveva tutti sotto lo stesso
tetto, figli, nuore, cognati, nipoti, ma i vecchi genitori avevano
il comando, sempre, e quando suo padre si ammalò, per potersi curare e per una serie
di malaugurate circostanze, fu costretto a svendere la quasi totalità della
loro terra.
Così mio nonno, sposato con figli, si ritrovò praticamente
senza più nulla e per vivere e mantenere la sua famiglia,
accettò di diventare mezzadro dei conti Dulio, di Valvasone, il
paese vicino. Dei suoi fratelli, solo uno restò in paese, mezzadro
con lui mentre le sorelle con le loro famiglie emigrarono chi in Francia, chi
in Argentina.
Abbastanza iniqua la mezzadria, che
costringeva il contadino a fare a metà di tutti i guadagni e dei
raccolti con chi, solo per il fatto di possedere la terra, magari semplicemente ereditata, e senza
alzare nemmeno una vanga, godeva i frutti della fatica altrui. Durò fino al 1982, quando venne tramutata in affitto.
In ogni caso, di fondo c'era sempre il
pessimismo dei contadini, sia che producessero vino oppure angurie.
Mio nonno si agitava ad ogni comparsa
di nuvole, soprattutto in vista di un raccolto.... speriamo che stanotte non grandini, diceva, cosciente
della forza della natura e consapevole di dover affrontare un lavoro
enorme, scrupoloso, per arrivare alla qualità finale di quanto
coltivato, coccolato, accudito durante il corso della stagione.. mesi
duri, caldi, gravosi, e la sempre presente preoccupazione che un
qualsiasi evento atmosferico potesse distruggere tutto il lavoro
nelle vigne delle Grave. Non lo erano ma le considerava
come sue, e in parte lo erano state prima che il padre si ammalasse.
Lui era un tutt'uno con le sue radici,
abituato al sacrificio e alle rinunce, ma era sostenuto dalla
concretezza delle tradizioni e dal rispetto di tutto quello che lo
circondava.
Lui “sapeva” quando era il momento
di vendemmiare, quando l'uva era giunta alla giusta maturazione, e
dove, in quale punto della vigna era più matura rispetto ad altri,
sapeva quando era meglio aspettare a travasare il vino tenendo
sempre sott'occhio la luna.
L’uva va raccolta in luna calante diceva, mentre la fermentazione deve essere in luna crescente, solo in questo modo il vino sarà limpido e non farà "fioriture" (quello che si chiama flocculazione)..Si partiva sempre dal Pinot grigio, che spesso viene definito impropriamente come un’uva bianca, ma non lo è, si tratta infatti di una derivazione del Pinot Nero e i suoi grappoli non sono proprio di colore chiaro
poi si passava al Merlot e al Cabernet Franc. Il Refosco dal peduncolo rosso venne dopo...
Le uve uccelline, quelle che stanno ai bordi dei boschi o al limitare dei confini della vigna, le teneva per ultime, per farle appassire.
E fra quei filari dorati avveniva il
miracolo della vendemmia che si ripeteva ogni settembre con colori
e note sempre magiche, sempre diverse, a seconda della stagione che
l'aveva preceduta.
Prima che cominciasse la magia, c'era un gran lavoro di preparazione da fare, si dovevano imbiancare le pareti del portico a calce bianca, i tini venivano lavati con acqua bollente e soda, sul fondo si lasciava abbondante acqua in modo che il legno si gonfiasse e rendesse la botte completamente impermeabile.
Se c'era qualche cerchio da sostituire ecco che colpi sapienti con un martello lo facevano cadere, liberando le doghe che, come un fiore che sboccia, cadevano aperte sul pavimento. Una volta riparate, ecco che la stessa operazione prendeva la via inversa, con mani veloci mio nonno picchiava sul cerchio fino a posizionarlo al suo posto esatto e io mi chiedevo come potesse sapere sempre quale era il suo posto.... Poi si affilavano le forbici, si preparavano le ceste, e si lavava anche il carro che avrebbe accolto le uve, si infilavano le sponde e lo si rivestiva di un vecchio telo impermeabile perchè i succhi dell'uva caricata, che inevitabilmente si sarebbe schiacciata sotto il peso, non si perdesse. Mi ricordo che era un telo mimetico, probabilmente militare, chissà in quale modo arrivato fino a casa nostra.
Prima che cominciasse la magia, c'era un gran lavoro di preparazione da fare, si dovevano imbiancare le pareti del portico a calce bianca, i tini venivano lavati con acqua bollente e soda, sul fondo si lasciava abbondante acqua in modo che il legno si gonfiasse e rendesse la botte completamente impermeabile.
Se c'era qualche cerchio da sostituire ecco che colpi sapienti con un martello lo facevano cadere, liberando le doghe che, come un fiore che sboccia, cadevano aperte sul pavimento. Una volta riparate, ecco che la stessa operazione prendeva la via inversa, con mani veloci mio nonno picchiava sul cerchio fino a posizionarlo al suo posto esatto e io mi chiedevo come potesse sapere sempre quale era il suo posto.... Poi si affilavano le forbici, si preparavano le ceste, e si lavava anche il carro che avrebbe accolto le uve, si infilavano le sponde e lo si rivestiva di un vecchio telo impermeabile perchè i succhi dell'uva caricata, che inevitabilmente si sarebbe schiacciata sotto il peso, non si perdesse. Mi ricordo che era un telo mimetico, probabilmente militare, chissà in quale modo arrivato fino a casa nostra.
Su dai, alzati, che andiamo.
Mi svegliava così, tutto contento di
andare in vigna.
Lui era in piedi da prima che sorgesse il sole e
aveva già munto le vacche e rigovernato la stalla.
Ci teneva che ci fossi anch'io per la vendemmia e voleva che tutti vedessero che sua nipote, "la milanesa" era comunque coinvolta nella vita del paese, legata alle tradizioni.
Mi vestivo in fretta, scendevo e
trovavo il caffelatte fumante sulla tavola. Mia nonna, in silenzio,
con rapidi gesti preparava la solita borsa di tela. Polenta bianca,
formaggio, a volte un pezzo di frittata, la fiaschetta dell'acqua che
mettevamo in fresco nel Gorgaz , un torrente perennemente impetuoso
che scorreva ai limiti della vigna, e via, infilavo lis dalminis,
tipici zoccoli friulani che mi aveva fatto lui, e subito mi issava
sulla canna della bicicletta. Qualche chilometro fuori dal paese,
per strade bianche e viottoli fra i campi e arrivavamo...
Era consuetudine, in quella società
contadina di allora, aiutarsi. Le braccia erano quelle di amici, di
parenti, di conoscenti che venivano a vendemmiare la tua vigna, e in
cambio tu andavi ad aiutare a vendemmiare la loro. Un mutuo scambio,
senza contropartite che non fossero un fiasco di vino, un pezzo di
formaggio, mezzo sacco di patate o, potendo, un salame se ne era
rimasti dall'inverno prima.
Così, nelle vigne ci accoglieva un
brulicare di gente indaffarata a raccogliere i grappoli, allineata
sotto i tralci ancora umidi di rugiada, e mani veloci ed esperte
separavano i grappoli dalla pianta, eliminavano gli acini
rovinati, controllavano che l'uva fosse completamente sana. Un lavoro che richiedeva anche molta attenzione perchè le persone lavoravano opposte lungo lo stesso filare, e bisognava stare attenti alle mani
del dirimpettaio, nascoste dal fogliame delle viti..
L'uva veniva messa in grandi ceste che una volta riempite venivano caricate sui carri, e una volta colmi, i buoi si avviavano lentamente verso la cantina, o verso casa.
Un vino è buono se viene da una buona uva, questa era la regola da seguire per la raccolta, perciò l'uva doveva arrivare integra nella cantina. Non credo sia cambiata nel corso del tempo.
L'uva veniva messa in grandi ceste che una volta riempite venivano caricate sui carri, e una volta colmi, i buoi si avviavano lentamente verso la cantina, o verso casa.
Un vino è buono se viene da una buona uva, questa era la regola da seguire per la raccolta, perciò l'uva doveva arrivare integra nella cantina. Non credo sia cambiata nel corso del tempo.
Ogni tanto qualcuno intonava una
vecchia Villotta, e allora tutti si mettevano a cantare e quelle
voci, in mezzo alle vigne, le sento ancora.
Risento le risate agli aneddoti, alle barzellette in friulano e rivivo quel clima di allegria contagiosa che prendeva tutti, nonostante le mani sporche, le braccia stanche e il fastidio degli insetti. Rivivo quella sensazione di sentirsi parte integrante di un tutto, di una comunità che condivideva la stessa cultura antica, quasi arcaica, e ne era custode.
Risento le risate agli aneddoti, alle barzellette in friulano e rivivo quel clima di allegria contagiosa che prendeva tutti, nonostante le mani sporche, le braccia stanche e il fastidio degli insetti. Rivivo quella sensazione di sentirsi parte integrante di un tutto, di una comunità che condivideva la stessa cultura antica, quasi arcaica, e ne era custode.
Alla fine, la maggior parte del
raccolto finiva alla Cantina sociale, ma la quantità che serviva
per il fabbisogno familiare andava negli enormi tini predisposti
sull'aia, e allora tutti dentro a pigiare con i piedi.
Era forse il momento clou, il momento più bello, quello che dava un senso alla fatica di tutto un anno di lavoro e che scioglieva definitivamente le ansie e le preoccupazioni.
Era forse il momento clou, il momento più bello, quello che dava un senso alla fatica di tutto un anno di lavoro e che scioglieva definitivamente le ansie e le preoccupazioni.
Finiva la vendemmia e ci si preparava alla festa intanto le fasi del lavoro avanzavano..
Le vinacce si filtravano facendole passare attraverso un grande "setaccio" per schiacciare anche l'ultimo acino, e mio nonno, durante la fermentazione ogni giorno saliva ad affacciarsi sopra i tini con un grande bastone a cui era legata una specie di tavoletta quadrata, con questo attrezzo improvvisato muoveva la superficie ormai compattata dalla fermentazione e la "spezzava". Tutto così veniva ossigenato in modo uniforme e le bucce degli acini, così facendo, non avevano il tempo di ossidarsi.
Alla fine, dopo qualche giorno di lavoro ininterrotto si spinava il mosto, travasato in altre botti di legno passandolo attraverso un filtro che lo ossigenava e lo liberava da impurità, il mosto poi veniva trasferito in altri grandi tini e messo a riposare in un locale apposito. Il suo profumo quasi ti stordiva, forte, dolce e inebriante.
Le vinacce venivano conservate in piccole botti dove ci si mettevano a marinare le rape per la brovada che sarebbe venuta ad autunno inoltrato...
Anche per i bambini la vendemmia era un momento di allegria e di gioco. Anche per me quindi, che man mano che si pigiava e le uve si abbassavano, sparivo dentro al tino. Allora mio nonno mi prendeva in braccio e mi metteva fuori, inzaccherata fino all'inverosimile.
Le vinacce si filtravano facendole passare attraverso un grande "setaccio" per schiacciare anche l'ultimo acino, e mio nonno, durante la fermentazione ogni giorno saliva ad affacciarsi sopra i tini con un grande bastone a cui era legata una specie di tavoletta quadrata, con questo attrezzo improvvisato muoveva la superficie ormai compattata dalla fermentazione e la "spezzava". Tutto così veniva ossigenato in modo uniforme e le bucce degli acini, così facendo, non avevano il tempo di ossidarsi.
Alla fine, dopo qualche giorno di lavoro ininterrotto si spinava il mosto, travasato in altre botti di legno passandolo attraverso un filtro che lo ossigenava e lo liberava da impurità, il mosto poi veniva trasferito in altri grandi tini e messo a riposare in un locale apposito. Il suo profumo quasi ti stordiva, forte, dolce e inebriante.
Le vinacce venivano conservate in piccole botti dove ci si mettevano a marinare le rape per la brovada che sarebbe venuta ad autunno inoltrato...
Anche per i bambini la vendemmia era un momento di allegria e di gioco. Anche per me quindi, che man mano che si pigiava e le uve si abbassavano, sparivo dentro al tino. Allora mio nonno mi prendeva in braccio e mi metteva fuori, inzaccherata fino all'inverosimile.
Le donne di casa apparecchiavano
tavole lunghissime sotto le piante, nell'orto. Ed erano cibi semplici, poveri
come la cucina friulana, polenta, rigorosamente bianca, e frico, salat
e savola (salame, cotto con tante cipolle e aceto) e frittata
friulana, minestra di orzo e fagioli, insalata di radicchio, e
Merlot, o Cabernet, molto.
E poi compariva quasi sempre una
fisarmonica. E allora, complice il vino, balli e canti continuavano
fino a notte, finché la stanchezza prendeva il sopravvento, e pian
piano iniziavano i saluti perchè il giorno dopo si ricominciava,
nella vigna di qualcun'altro.
Io ovviamente non restavo fino a tardi, salivo in camera mia e da sopra ascoltavo e aspettavo, senza dormire. Dopo il commiato dell'ultimo vendemmiante, sapevo che sarebbe venuto mio nonno a rassettarmi il letto. Era il nostro appuntamento fisso, un piccolo rito fra noi due. Fingevo di dormire, lui si chinava sul letto e mi baciava sistemandomi le lenzuola. Al che io fingevo di svegliarmi e lo abbracciavo.
Io ovviamente non restavo fino a tardi, salivo in camera mia e da sopra ascoltavo e aspettavo, senza dormire. Dopo il commiato dell'ultimo vendemmiante, sapevo che sarebbe venuto mio nonno a rassettarmi il letto. Era il nostro appuntamento fisso, un piccolo rito fra noi due. Fingevo di dormire, lui si chinava sul letto e mi baciava sistemandomi le lenzuola. Al che io fingevo di svegliarmi e lo abbracciavo.
Odorava ancora di mosto. Un profumo
che ogni tanto ritorna quando penso a lui, alla sua vita tanto
difficile e faticosa, al suo mancare relativamente giovane e al
dolore che provo ogni volta al pensiero di che cosa avrebbe potuto
essere se fosse vissuto più a lungo e non è stato.
Lui era Basilio, classe 1902, contadino
friulano, mio nonno.
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