Dedico a mio padre questa cosa che avevo scritto tempo fa..

Noi.
Anime di confine.
Cresciuti in un immenso vigneto chiamato Friuli.
Taciturni, riservati e un po' ruvidi, col volto bruciato dal sole e le mani rovinate.
Noi. Custodi di cultura e storia andata di pari passo con gli eventi, anche i più tragici.
Friuli, dove l'emigrazione carica di dignità ha prodotto una dolorosa diaspora. Ma per quanto lontani, non è mai venuto meno l'attaccamento alla terra, alla casa, al fogolar.
Friuli, dove le donne erano già vecchie a 40 anni, sfiancate dalla fatica del lavoro dei campi e dal fare figli.
Essere donna in Friuli significava essere focolare, legna e fuoco allo stesso tempo, uva e non vite, farina e non grano, madre e non sempre moglie, sempre dietro, sempre dopo, senza porsi troppe domande, sempre condiscendente, servizievole e paziente.
La pazienza  è la cosa che si notava per prima nei loro occhi, la pazienza in questa terra di confine è stata e forse è ancora fonte d'insegnamento, è culto, ed  è stato forse il collante che ha tenuta unita questa dura società contadina.
Donne che a ottant'anni hanno ancora voglia di pensare al futuro. Come mia nonna, e dopo di lei, ora, come mia madre.
Donne.
Una famiglia come punto di partenza.  con una famiglia come punto di arrivo e,  in mezzo,  le memorie, i sogni, i ricordi, le delusioni e le speranze per una vita migliore.
Donne carniche che d'estate si recavano sui monti a falciare il fieno portando nella gerla un tovagliolo con dentro la polenta fredda, formaggio e una bottiglia di latte.
Donne di pianura che facevano la stessa cosa, la gerla non c'era, sostituita da una borsa di panno, ma i gesti erano gli stessi, la fatica era la stessa.
Donne che preparavano, e preparano, un cibo schietto e povero, ma con un filo conduttore: l'amore per la propria terra, e la grande civiltà della sua tavola. La stessa civiltà della mia gente che si manifesta con ordine e armonia dentro il cuore e fuori, nella vita.
Sì, cucina povera e borghese quella friulana, presentata con silenziosa dignità, incredibilmente ricca di sfumature, contaminata dalla vicinanza con altre culture e altre storie.
In principio, naturalmente, il vino.
Quel vino che ti attrae al primo sorso, che ti rimane nella gola e nella memoria.
Condimenti fatti con il burro cotto, lo strutto e il sic', il latticello, conservati nel sisar, un piccolo recipiente di legno, salumi fatti stagionare nel camarin, appesi alle volte come stalattiti.
Minestre fatte bollire a lungo con dentro un osso di maiale e a metà cottura l'aggiunta della "trida" un condimento fatto con farina arrostita nel burro cotto.
Me la ricordo ancora, e la vedo, quella pentola di fagioli bollire sul fuoco del fogolar, in mezzo alla stanza. Un profumo leggero che saliva mescolato all'odore del fuoco, si spargeva dappertutto anticipando coi profumi ciò che sarebbero stati i sapori...
E le erbe, rosmarino, alloro, salvia, prezzemolo e basilico, erba luisa, timo, menta e menta rossa e tantissime altre ancora...
erano tutte nell'orto dietro casa, a portata di mano in ogni momento, oltre che per  profumare ogni pietanza,  il  basilico era un profumo, la menta un dentifricio, secondo le necessità....  .
Il profumo di rosmarino accompagnava i miei pasti, mia nonna ne usava a iosa con il coniglio e il pollo che usava cuocere  nel forno della stufa a legna.

Per cena sempre polenta, da noi bianca, con salsiccia, frico, frittate e umidi. O anche solo polenta e radic, o polenta e formai.
La polenta. Che riempiva le pance, che saziava tutti quando non c'era da mangiare. Quando la carne era un lusso che ci si poteva permettere solo nelle feste più grandi, quando le parti della carne le facevano le nonne, matriarche di famiglie numerosissime che vivevano sotto lo stesso tetto.
E la parte migliore toccava ai vecchi, poi venivano gli uomini, poi le donne ed infine, quel che restava, era dei bambini.
E la grappa. La grappa che mio nonno faceva di nascosto nel mezzo del granturco, che anche  mia zia faceva fino a qualche anno fa.
Fuoco liquido quello.
Chissà quando è nata la grappa.
A Cividale, nel testamento di  di ser Everardo da Cividale si lascia in eredità un alambicco e si parla di alambicco per la "grespia".  Era il 1451.
Un notevole impulso alla produzione lo diede Maria Teresa d'Austria che permise, quale compenso fedeltà alle truppe originarie del Friuli, di distillare nelle famiglie con l'esenzione delle gabelle.

La grappa. Mia nonna la metteva nel caffè della mattina. All'osteria fra un  taj di bianco e un taj di nero, faceva capolino anche lei, a qualsiasi ora del giorno e della sera.
Il camarin dei vini era impregnato del suo profumo, che a volte si mescolava con quello delle botti avvinate in una miscela  che sconvolgeva le narici inebriandoti un po'….


Friuli. Le mie radici.  Un amore sconfinato...




questo è il lidric cu li fricis  (radicchio con i ciccioli)  anche se nel paese dove sono nata, nella bassa friulana, lo chiamano radic...

è uno dei tanti piatti poverissimi della cucina friulana,  ne era anche molto ghiotto  mio padre e quando era di stagione era immancabilmente in tavola, con l'altrettanto immancabile polenta bianca....
ricordo che da ragazza non lo amavo molto, per via del suo gusto leggermente amarognolo, ma l'ho riscoperto  poi, dopo sposata, e ogni tanto lo compro, quando lo vedo bello e sano, ripensando a mio padre...chissà cosa direbbbe vedendolo sulla mia tavola ora...
Lo rivedo mio padre, intento a pulirlo, con pazienza e cura,  lo sceglieva, tagliava un pezzetto di radice lasciandone un piccolo moncone, la scorticava per bene, eliminava le foglie più esterne leggermente ammaccate, o più dure,  e poi  lo lavava più e più volte finchè l'acqua che restava era perfettamente pulita,... lo pregustava mentre tagliava a dadini la pancetta...niente lardo per noi, ma questo fa parte delle tradizioni  che ogni famiglia ha diverse per uno stesso piatto..

Io non amo mangiarlo con la radice, per cui la elimino e lo faccio a foglie, e uso pancetta, come mio padre...



per due persone
300/400 gr cicorino (quello a rosetta, Cicorino verde, o cicoria a grumolo) con la radice
150 gr pancetta liscia in una fetta sola, tagliata  a dadini (la ricetta classica prevede lardo)
aceto rosso
poco olio, sale, pepe


Pulire bene l'insalata, eliminare parte della radice, lasciandone un pezzetto comunque, pulire bene anche quella e lavare accuratamente più e più volte. Scolare, mettere in una capiente insalatiera e tenere da parte.
Ridurre a dadini la fetta di pancetta.
In un padellino scaldare un goccio d'olio, rosolarci i dadini di pancetta e quando stanno per diventare croccanti, sfumare con una generosa spruzzata di aceto rosso.
Mentre sfrigola, versare il tutto caldissimo sull'insalata, mescolare e mangiare subito, deve essere caldo.

un piatto davvero molto semplice ma  che conserva la memoria  della povertà...