Ci siamo, fra qualche ora sarà Natale.
Il mio sarà un po' diverso stavolta, col cuore diviso a metà.
Mi siedo un attimo sul divano, ripiglio fiato. Le tende sono aperte e lo sguardo indugia oltre i vetri, una coppia di cornacchie svolazza davanti alle finestre, ce ne sono talmente tante dappertutto, ormai. Sempre in coppia, monogame, perennemente alla ricerca di cibo, qualunque sia. Se ne vanno gracchiando e io resto seduta a guardare il cielo. Inevitabile pensare a quante vigilie di Natale sono passate.
Per noi friulani, che chiamiamo baccalà lo stoccafisso, è quello il piatto della vigilia.
Da che ho memoria, a casa mia cominciava tutto con la ricerca del baccalà. Doveva essere Ragno e con il ventre chiaro, sinonimo di qualità, e doveva corrispondere a determinate caratteristiche stabilite e tramandate da riti arcaici, quelli della famiglia patriarcale di mio padre: non troppo grosso ma nemmeno piccolo, secco ma polposo. Doveva rendere, una volta bagnato.
Abbiamo vissuto in quella casa di ringhiera dal 1954 al 1966, e finchè siamo stati lì mia madre lo comprava al mercato coperto di piazza Wagner, e se per una malaugurata circostanza non lo trovava, si rifugiava alle Fattorie Prealpine di Via S. Siro che a Natale esibivano il trionfo della tradizione natalizia lombarda e non solo. Mastelli di mostarda cremonese, montagne di mascarpone e di ricotta piemontese, enormi tome di Panerone e di Gorgonzola, forme di grana lodigiano, quello con la crosta nera, orizzontalmente divise a metà, grandi latte di acciughe sotto sale e di ventresca di tonno, salami, mortadelle di fegato, coppe e prosciutti appesi come stalattiti fra tralci di agrifoglio e lauro, senza contare gli innumerevoli vassoi di insalata russa e gamberi in gelatina, tartine di ogni tipo, e addirittura aragoste in bellavista, era un paradiso per gli occhi, anche se per noi, in quei tempi, era tutto costosissimo, inarrivabile. Poi, dopo che traslocammo in una vera casa vicino all'ospedale di Niguarda, il compito dell'acquisto rimase delegato a mia madre, magari capitava che qualche volta andassero insieme, prendevano il bus e lo cercavano al mercato del sabato di Piazzale Lagosta. Tornavano a casa con la borsa che lasciava la scia di baccalà...non oso immaginare sul bus... poi comprarono l'auto e il problema si risolse.
Quando lo acquistava mia madre, il baccalà doveva passare al vaglio di mio padre. Lui, tornato dal lavoro, lo ispezionava, lo soppesava mentre mia madre lo guardava con un sorrisetto ironico sulle labbra aspettando di vedere se avesse da ridire. L'approvazione arrivava puntuale, tranne rarissime volte in cui secondo lui o era troppo piccolo o non aveva il ventre abbastanza chiaro.
Solo dopo quel momento si poteva passare alla fase successiva: il rito della battitura. Che sembra una cosa semplice, ma non lo è affatto. La carne va ammorbidita, sfibrata, ma non si deve assolutamente rompere o stracciare. Ci volevano anni di esperienza e grande tecnica per riuscirci.
Mio padre prendeva il suo Ragno, scendeva in cantina dove aveva allestito un angolo di lavoro tutto attrezzato accanto alle damigiane e alle bottiglie di vino, e iniziava il rito.
Colpi decisi e ritmati, con un mazzuolo di gomma dura, da campeggio, avuto da non so più chi, sempre attento a non rompere le carni. La battitura durava un bel po'. A volte scendevo con lui e osservavo quel suo modo ritmato di battere il mazzuolo, costante e continuo, senza incertezze e senza errori, più leggero sul ventre, più pesante sul resto e non l'ho mai visto rompere nemmeno la pelle del baccalà, mai.
La battitura si concludeva con un sorriso soddisfatto di mio padre che poi tagliava la bestia in due o tre pezzi e si tornava di sopra a passare le consegne a mia madre.
E lì iniziava il secondo rito: l'ammollo. Tre o quattro giorni di puzza insopportabile in casa anche se tenevamo tutto sul davanzale della finestra di cucina che dava sul balcone.
Tre o quattro giorni a cambiare acqua, a rivoltare i pezzi, finchè mia madre, giudice supremo sul grado di morbidezza raggiunto, decretava che si poteva diliscare. Me li vedo, intenti alla bisogna, stretti nel minuscolo cucinino, spalla a spalla, complici.
E lì si arrivava alla volata finale: la cottura. La sopraintendevano tutti e due, a volte battibeccando, a volte ridendo, ma sempre con la voglia e la gioia di festeggiare il Natale con tutta la famiglia, con figli, nipoti, e con i parenti che ogni anno via via si aggiungevano.
Cuocerlo, finchè non è arrivata la pentola a pressione, era una operazione che durava altri due giorni se andava bene, mentre la puz.. pardon, l'odore che, nonostante tutte le porte delle stanze chiuse, impregnava qualsiasi cosa in quell'appartamento di 65 mq. e quando infilavi il cappotto per uscire, per strada ti guardavi alle spalle per controllare che non ti seguisse qualche gatto randagio... avevi un bel metterlo fuori sul balcone durante la notte, alla fine era anche peggio, un mix fra l'odore dell'inverno e quello del baccalà! E non è bello per una quindicenne andare in giro col cappotto "profumato" in quel modo!
Sorrido al pensiero, e una voragine di malinconia si apre e mi risucchia dentro i ricordi.
Torno a Natali innevati, alle lucine dell'albero sempre accese che riflettevano sui vetri, al freddo pungente, al cielo invernale punteggiato di stelle luminosissime, c'era il baccalà fumante sulla tavola, la polenta bianca, che costava poco e, fuori, la neve, che costava nulla.
C’era una grande famiglia. Che si voleva bene.
Mio padre non c'è più da quindici anni, ed è sempre difficile ogni volta che arriva la vigilia di Natale, senza di lui tante cose non hanno più lo stesso sapore, lo stesso significato. Ma il baccalà resta il nostro rito della vigilia, anno dopo anno, per continuare a sentirlo tra noi, e nonostante non ci sia chi lo sappia battere, lo porta avanti mia madre anche per lui. Credo che gli faccia piacere, se ci guarda da lassù.
Il baccalà della Luisa non ha bisogno di molte cose.
Si sciolgono quattro o cinque filetti di acciughe, diliscate e dissalate, nell'olio caldo e si mette il
baccalà, perfettamente ammollato e pulito da pelle e spine, ad insaporire, lo si lascia assorbire il condimento e poi si copre di latte e si porta a cottura rabboccando col latte se si asciuga troppo, la Luisa mette anche una punta di conserva di pomodoro, come ha imparato a fare da mia nonna. Con la pentola a pressione il risultato è parecchio
soddisfacente, si accorciano i tempi e ne guadagna il sapore poi, una volta cotto, ci si arma di olio di gomito e di una
frusta, oltre che di olio buono, e si procede alla mantecatura a fuoco allegro.
Noi lo accompagnamo con una polenta morbida, rigorosamente bianca.
Oggi è la giornata che il Calendario del Cibo Italiano dedica ai piatti della Vigilia di Natale, e ho voluto condividere quello che per noi è e sarà sempre il piatto tradizionale di questo giorno.
Ecco per me tutto è cambiato con la morte della mia nonna. Che ogni tanto il baccalà, ma non so quale dei due, lo preparava per mio nonno, proprio con una punta di passata. Non ricordo di averli mai visti battere alcunché, quindi probabilmente era proprio "baccalà".
RispondiEliminaPer Natale invece noi non abbiamo mai avuto un piatto codificato. Forse fa eccezione l'insalata russa, preparata da una mia zia, ché di fatto non abbiamo mai comprato nulla, un po' perché qui non c'è il trionfo che tu descrivi, un po' per questioni economiche. Anche oggi mi fa un effetto inverosimile vedere le vetrine natalizie delle gastronomie e così pure il tuo racconto. E poi ovviamente il panettone, anche quello era irrinunciabile, sempre Motta finché è stato possibile.
Oggi i panettoni sono diventati immangiabili per quel sapore dolciastro stucchevole e allappante che gli dà lo sciroppo di glucosio o fruttosio ormai presente ovunque al posto dello zucchero e poi sono sempre più sconditi e più secchi. Questo Natale ne ho assaggiati tre e nessuno era accettabile.
La rievocazione dell'intesa fra loro e della miseria di quei tempi è come sempre vivissima. Par di sentire l'odore spandersi ovunque e vedere la modestia di quelle condizioni di vita come in un film in bianco e nero. Oggi ci pensano gli "angoli cottura" così smart, così "salvaspazio" e così moderni a fare riappiccicare addosso gli odori che tre decenni di vita dignitosa sembravano aver fatto scomparire per sempre.
In questi gioni sono stata completamente fagocitata dalla famiglia, ma stasera mi sono voluta regalare la lettura di questo post.
RispondiEliminaDolcissimo,meglio di un romanzo.
Auguri, Giuliana!E grazie per essere come sei.