Però si fa presto a dire tapas, mica è abbastanza per definire quello che rientra in questa piccola parolina.
Grazie a Mai ho scoperto che "tapa" può essere qualcosa di avanzato,( una frittata, una minestra, uno spezzatino) e che si mangia nel piatto, oppure una piccola fetta di pane con sopra laqualunque, e allora diventa "montadito", mentre tutto quello che si infilza con uno stecchino per mangiarselo in un boccone è il "pincho".
E fin qui, ci siamo. Facile? Mica tanto, ....lassù qualcuno ci ama e ha stabilito che la sfida a colpi di "tapas" deve essere qualcosa che arriva da una idea precisa, da un argomento, da un percorso da sviluppare e ritrovare in ognuna delle forme di tapas che ho descritto...
Io sono in quel periodo della vita in cui è abbastanza frequente guardarsi indietro, ripensare a tutto quello che è il proprio vissuto, alle tempeste e alle bonacce attraversate, alle persone care, a quelle conosciute che hanno diviso o dividono con te la vita, agli amici persi, rimasti, ritrovati, a quelle che comunque ti hanno lasciato qualcosa di sé, nel bene e nel male, a chi ti ha accompagnato per un breve pezzetto di strada, a quelle anche solo sfiorate per qualche momento, ma che lo stesso hai ben presente. Da ognuna di loro ho avuto qualcosa che ha contribuito a farmi diventare quella che sono e questo mi fa venire in mente una frase di un libro, Treno di notte per Lisbona che rispecchia molto bene quello che ho appena scritto.
"Lasciamo sempre qualcosa di noi quando ce ne andiamo da un posto, rimaniamo lì anche una volta andati via, e ci sono cose di noi che possiamo ritrovare solo tornando in quei luoghi. Viaggiamo dentro noi stessi quando andiamo in posti che hanno fatto da cornice a periodi della nostra vita, non importa quanto questi siano stati brevi."
E allora il mio percorso con le tapas sarà come un filo che lega alcuni momenti della mia vita ad alcune persone e ai ricordi legati ad esse e alle mie radici friulane che man mano passa il tempo, scopro sempre più profonde.... passerò dalle nacchere a lis dalminis e dai sombreros alla farsora.
Il filo della memoria
Il Frico, originario della Carnia, è forse il piatto più conosciuto e rappresentativo del Friuli, unica regione italiana dove lo si prepara. Ha origini lontane, la prima ricetta scritta con il nome di “Caso in Patellecte”viene riportata nel “Libro de Arte Coquinaria” di Maestro Martino, cuoco del Patriarca di Aquileia, Bertrando di San Genesio.
Nella tradizione della montagna, il frico croccante, insieme alla polenta fredda (ben soda) era cibo tradizionale che i boscaioli potevano trasportare negli zaini. Piatto per stomaci robusti dunque, mentre in pianura era anche destinato alla colazione del mattino, soprattutto d'estate, in tempo di fienagione.
Per me era la merenda.... mia nonna materna, Giovanna, una donnina piccina, sempre vestita con abiti scuri lunghi fino alle caviglie, con perennemente in testa il classico "fazzoletto" nero annodato all' antica maniera friulana , era una nonna un po' atipica, sui generis, non amava tanto le smancerie, o le troppe parole, era anche un po' controcorrente, le piaceva il tabacco da fiuto, e ne portava sempre in tasca, dentro a una scatoletta di osso.
Durante mie vacanze in Fruli stavo con la mia nonna paterna, ma per qualche settimana mi trasferivo al paese di mia madre, una ventina di chilometri più in giù, nella bassa friulana, nelle zone raccontate da Ippolito Nievo, per stare con la nonna Giovanna, a casa di mia zia e dei miei 5 cugini. Erano giorni totalmente vissuti allo stato brado a contatto con la natura e negli spazi aperti, credo siano state le mie estati più belle, in quella età di passaggio che è l'adolescenza... la casa era isolata, in mezzo alla campagna e alle vigne e con i miei cugini facevamo lunghe passeggiate nei campi mangiucchiando la frutta che ci capitava a tiro, oppure andavamo al fiume a fare il bagno, o a pescare e poi ci arrampicavamo su un grande, maestoso platano, dove stavamo per ore, appollaiati sui grossi rami, a dominare dall'alto la campagna e a perdere lo sguardo fin sotto le montagne, aspettando i rintocchi delle campane sui campanili sparsi nella pianura.
Ma quando era ora di merenda eravamo sempre a casa puntuali. Mia nonna non preparava torte, prediligeva il salato, e allora trovavi sulla tavole uova al tegamino, o un pezzo di frittata fredda, e quando proprio voleva coccolarci ci preparava il frico al momento, che va mangiato caldissimo, ed allora sì che era festa!! Ce lo litigavamo sempre, non ci bastava mai....e nascevano dispute feroci su chi ne aveva avuto di più....Quanto ridevamo poi! E quanto ridiamo ancora adesso quando ricordiamo quei momenti! E ricordiamo lei, una piccola donna vestita di nero, che odorava sempre di tabacco.
Frico
per due persone:
1 patata
1 piccola cipolla
150 g formaggio Montasio semi stagionato
poco sale, poco olio
abbondante pepe nero macinato al momento
In una padella antiaderente tonda da 25 cm. scaldate un goccio d'olio, aggiungete le cipolle e lasciatele stufare un poco, controllando che non prendano colore, quindi aggiungete le patate tagliate a pezzetti sottili, salate, e lasciate che prendano calore, mescolate spesso in modo che non attacchino e non si dorino troppo.
Portate a cottura, dopodichè, con una forchetta, schiacciate bene tutto, e compattatelo in uno strato uniforme.
Tagliate il formaggio a pezzetti sottili, aggiungetelo sopra le patate, lasciate che prenda calore poi mescolate perchè si distribuisca bene. Il formaggio fonderà. Lasciate cuocere finché sotto farà una bella crosticina,
e allora con un mestolo piatto o una paletta iniziate a staccarlo dal fondo, pian piano iniziando tutto intorno ai bordi, finché scuotendo la padella lo vedrete muoversi senza problemi.
A questo punto prendete un coperchio piatto, della stessa misura della padella, coprite e facendo molta, molta attenzione a non scottarvi, inclinate un poco la padella, tenendo stretto il coperchio, sopra il lavandino per lasciar colare via il grasso in eccesso che il formaggio avrà rilasciato, e girate il frico come fosse una frittata, rimettendolo della padella a dorarsi sul fuoco dall'altro lato.
Ci vorranno un paio di minuti. poi toglietelo e fatelo scivolare su un piatto caldo, spolverizzate di abbondante pepe nero macinato al momento e servitelo ben caldo!
Per questa ricetta tipica ci vorrebbe il formaggio apposito che si usa in Friuli, un po' più fresco di quello che ho usato io, ma il frico riesce sempre e comunque...
La brovada e il muset, un altro dei piatti della cucina contadina friulana, dove anche le rape hanno sempre avuto un loro perchè, e questo la dice lunga sulla povertà che ha caratterizzato quelle terre nel tempo.. Il muset è un cotechino ricco di spezie, fatto con la carne macinata del muso del maiale, muset appunto.
La brovada non sono altro che rape messe a macerare nelle vinacce dopo la spremitura dell'uva, per circa un mese, e poi estratte, sbucciate e grattugiate, oggi vendute dappertutto, quando è stagione, in sacchetti di plastica da chilo.. E' una preparazione tipicamente invernale.
E' il sapore che mi torna in mente quando penso ai nostri viaggi in Friuli per "i morti", come diceva mio padre, ai primi di novembre. Partivamo sempre nel tardo pomeriggio del venerdì, appena finito di lavorare e dopo quasi 4 ore di viaggio arrivavamo immancabilmente ad attraversare paesetti e paesoni, le autostrade ancora non erano così capillari, sulla Pontebbana mentre puntuale arrivava la processione di Ognissanti, impossibile evitare di finirci in mezzo e i tempi del viaggio si allungavano a dismisura, tanto che quando arrivavamo a casa trovavamo con piacere il brodo di mia nonna ad accoglierci, e una pentola di brovada già pronta per il pranzo del giorno dopo.
Mio padre ci andava matto per brovada e muset e quando era in tavola, con una buona dose di polenta, lui se la gustava in religioso silenzio, assaporando a lungo ogni boccone, come a fissarne in testa il sapore. Neanche fosse un piatto da ristorante stellato. Non è sicuramente un gusto facile, non ha mezze misure, o la ami, o la detesti.
Io, come mio padre, la amo moltissimo, e appena ne ho l'occasione la compro e faccio in modo di averne sempre in congelatore, col muset. E quando la cucino ne respiro il profumo, forte e deciso, e l'immagine di mio padre torna prepotente a riportarmi a quei momenti di religioso silenzio.
Questo è per lui, uomo retto, forte della sua identità contadina, ma al tempo stesso colto, preparato e intelligente. Fumino e combattivo, si avvelenava davanti alle ingiustizie e ai soprusi e partiva lancia in resta, pagando sempre di persona le conseguenze.
Brovada
1 kg di brovada pronta
1 cipolla
2 foglie di alloro
brodo di carne q.b.
una noce abbondante di burro
poco sale.
1 muset da circa 600 gr
(o un cotechino di buona qualità)
poco pane francese a fette
Mettete a cuocere il cotechino partendo da acqua fredda, in un tegame coperto. Tenete il fuoco basso e lasciatelo andare pian piano per un paio d'ore.
Mentre il cotechino cuoce, preparate la brovada. In un largo tegame fondete una grossa noce di burro, aggiungete la cipolla tritata, lasciate stufare un paio di minuti quindi scolate la brovada pronta dal sacchetto e aggiungetela nel tegame, mescolate, allungate con un poco di brodo, aggiungete l'alloro, salate il tutto e coprite il tegame.
Portate a cottura mescolando ogni tanto e controllando che il liquido non si asciughi troppo, nel qual caso aggiungete ancora un poco di brodo o di acqua calda.
Una volta che sia il cotechino che la brovada sono pronti, tagliate il pane francese a fette, appoggiate un poco di brovada sulla fetta, quindi completate col cotechino scolato dal suo brodo e liberato dalla pelle.
E i montaditos sono pronti.
Ovviamente ne avanzerà, ma si mangia sempre con lo stesso cotechino, come buon secondo, e il giorno dopo è anche più buona....
Polenta, cipolla, e "renga" era una delle cose che più piacevano a mio nonno Basilio, retaggio della sua infanzia, quando intorno a un tavolo, tutta la famiglia patriarcale strusciava un pezzo di polenta su un'unica aringa affumicata posta nel mezzo.
Friuli terra di miseria e di emigrazione, e la polenta, rigorosamente bianca......era la cosa che riempiva le pance e che s'intreccia alla storia sociale del nostro Paese e della sua lunga miseria contadina, causa principale di pellagra, con le sue devastanti e abbrutenti conseguenze fisiche e psichiche.
Mio nonno amava raccontare della sua infanzia, molto dura e in tempi lontani, era del 1902, e nascere in quei paese condannati alla miseria era una vera disgrazia. Ma lui me ne faceva un dipinto storico, raccontandomi aneddoti, episodi e avvenimenti, e insegnandomi, attraverso i suoi ricordi, tutti i gradi di parentela con le persone che bazzicavano la nostra casa.
Mi colpiva molto quanto la fame trasparisse da ogni suo racconto, e particolarmente lo struscio della aringa. Quasi vedevo il grande tavolo, illuminato da una fioca luce, il grande tagliere rotondo della polenta, il momento in cui veniva rovesciato il paiolo e la polenta fumante ricadeva con morbide volute su di esso, il rito del taglio col filo, prerogativa del mio bisnonno Paolo, che ricavava quadrotti tutti uguali, e l'unica, solitaria aringa affumicata in mezzo al tavolo, in un piatto dove a turno tutti i presenti strusciavano un pezzetto di polenta prima di portarla alla bocca. Storie di ordinaria miseria di tante zone del Triveneto, durate parecchi anni, ma mio nonno ne ha sempre parlato con un accento di tenerezza nella voce, ricordando di quando era bambino. Questi pinchos sono per lui, sono sicura che apprezzerebbe.
Polenta, cipolla e aringa
3 fette spesse di polenta fredda (per me è bianca ma va bene anche la gialla)
1 aringa affumicata abbastanza grossa
mezza cipolla rossa di Tropea
4 cucchiaini di sale fino
2 cucchiaini di zucchero
2 cucchiai abbondanti di aceto di mele
2 foglie di alloro
qualche grano di pepe nero
latte q.b.
Per prima cosa pulite l'aringa affumicata, se trovate quella dorata, meglio. In ogni caso eliminate la testa, apritela a libro e pulitela dalle interiora e dalle spine più evidenti, lavatela e tamponatela con della carta da cucina poi mettetela in Tupper che la contenga perfettamente stesa, copritela di latte fresco, aggiungete le foglie di alloro e i grani di pepe, sigillate e mettetela al fresco per 24 ore.
Allo stesso modo, la sera prima, preparate la cipolla rossa. Pulitela, lavatela, asciugatela e tagliatela in due. Sfogliate una metà con delicatezza in modo da non rompere i petali ricavati, eventualmente tagliate a metà quelli più grandi. Il resto della cipolla lo userete in altro modo.
Mettete tutti i petali di cipolla in una ciotola, spolverateli con due cucchiaini rasi di sale, mescolate, coprite con della pellicola e lasciateli così per circa un'ora. Dopodichè lavateli sciacquandoli perfettamente. Raccoglieteli di nuovo nella ciotola, aggiungete il resto del sale fino, lo zucchero, l'aceto di mele, mescolate bene di nuovo, quindi coprite la ciotola e lasciate anch'essa al fresco per 24 ore.
Poco prima di servire, grigliate bene le fette di polenta da entrambi i lati, toglietele solo quando sono ben grigliate, al limite della bruciatura. Tagliatele a pezzettoni e tenete da parte.
Prendete l'aringa, scolatela dal latte senza sciacquarla, tamponatela con della carta da cucina e tuffatela, dentro e fuori, in un bagno di acqua bollente acidulata con un cucchiaio di aceto o di vino bianco.
Questo farà in modo che si arricci leggermente ai lati, rivelando le spine sottili, che andranno tolte.
Parate l'aringa e tagliatela a pezzettoni simili a quelli di polenta.
Riprendete anche le cipolle, ormai marinate, toglietele dalla ciotola, mettetele in un colino e date una veloce risciacquata, asciugatele.
Ora componete i pinchos, a strati, partendo da un pezzetto di polenta grigliata, che farà da base, e proseguendo con un petalo di cipolla marinata e un pezzetto di aringa, e d nuovo così finchè ci sta con lo stecchino.
Chissà se per Mai sono abbastanza pieni questi pinchos!
Ecco, ho scritto un papiro, chiedo scusa a chi leggerà, spero di non annoiare troppo.
Starei a leggerti per ore e ore Giuliana! E che salivazione! E stasera faccio il frico e metto le cipolle a marinare! Quanta bellezza e quante ottime proposte, sei eccezionale!! Bravissima
RispondiEliminaGrazie Cecilia!
EliminaGrazie Cecilia!
EliminaNon devi chiedere scusa perché leggere quello che ci emoziona e fa nascere ricordi è solo un arricchimento
RispondiEliminaHo un'acquolina di frico e se non fosse che ho appena cenato me lo preparerei, le tue tapas sono veramente golose e ricche d'emozioni
Ho una curiosità la brovada cos'è esattamente perché guardandola sembrerebbe quasi cavoli o crauti più grossi però dei nostri o forse è solo che mi hai ricordato i nostri profumi
Grazie Manu
Attraverso le tue parole mi sembra di aver visto tutti le scene, i luoghi e le persone che racconti. Hai una scrittura molto evocativa, semplice e scorrevole. E i piatti che proponi sono un inno alla tua terra, oltre che alla tua storia familiare. Bellissimo!
RispondiEliminaScusa la gaffes, dal cell mi ero persa la tua spiegazione della brovada
RispondiEliminaGrazie ancora ciao Manu
Che buone che sono le tapas!
RispondiEliminaBelle le tue!
Un abbraccio e buon Venerdì
Ho letto con tenerezza i tuoi vividi ricordi. Grazie per averli condivisi insieme a questi piatti gustosi.
RispondiEliminagrazie di nuovo ragazze!
RispondiEliminaTua nonna mi sarebbe stata simpaticissima, anche io amo il salato sempre anche, a merenda e a colazione pure!
RispondiEliminaMi ha fatto venire in mente mio nonno che mi preparava delle frittate da favola a colazione. Per ciò trovo molto bello il tuo fil rouge di queste tape della memoria.
La tua tapa mi ricorda un po', per gli ingredienti, la tortilla di patatas tanto che mi sembra di vedere una tapa di tutta la vita!
La brovada è la prima volta che la sento nominare, ma qua all'ITC sai quante se ne imparano? Io da questa sfida ne uscirò ubriaca di cose nuove!! Come il Muset, che se per il nome ci sono arrivata, devo dirti che mai assaggiato ma che se come dici tu o lo ami o lo odi, allora lo metto in lista come un'altra delle cose che vorrei assaggiare.
I pinchos di nuovo mi viene in mente mio nonno perché è stato lui e mia nonna a farmi assaggiare l'aringa, ma quella sotto sale. E si questi sono le tapas della memoria!
Grazie per questi tuoi accostamenti e ricordi! pesos
Sono emozionata adoro tutto quello che riguarda la storia e la cucina legata.alla famiglia io sono cosi presa dal post che lo rileggerei altre 10 volte
RispondiEliminaComplimenti
Una marea di idee in un solo piatto e tanti bei ricordi. Non so se mi piacciono di più le tue ricette, o i tuoi racconti! Ma lo sai già, vero?
RispondiEliminaQuesto è indubbiamente il post più bello che abbia letto finora, intriso di ricordi proustiani che emergono ad ogni boccone.
RispondiEliminaIl tuo racconto è così bello e avvincente che rischia di far passare in secondo piano le ricette, veramente degne di nota.
Ti vedo in pole position, my dear!!! :-)))
Grazie per averci regalato un pezzetto di te.
ancora grazie, per i commenti, per la vostra presenza. Grazie di cuore.
RispondiEliminaI ricordi non annoiano mai, le tue tapas sono veramente sentite e mi piacciono tutte!
RispondiEliminaComplimenti
Ma dài. Il "casio in pastelletto" del Nome della rosa esiste davvero e si chiama frico?
RispondiEliminaChe bontà!
che delizia leggerti, fai rivivere scampoli di vita contadina rendendoli memorabili con grande eleganza e sentimento. Rammento la "tua" vendemmia in Friuli, stesso tocco, stesso piacevolissimo amarcord.
RispondiEliminaE che dire dei piatti, i primi due non li conoscevo, ma me li sto gustando con la fantasia, mi par di sentire i sapori...il frico, la brovada e muset, so già che mi farebbero impazzire!!
La brovada praticamente è tipo sauer craut però con le rape e il mosto al posto dell'aceto, giusto?
grazie Cristina, come ti dicevo,se ci sarà occasione sarò felice di preparateli...
RispondiEliminaNon è proprio come per i sauerkraut, che vengono marinati nel sale. Le rape vengono messe, intere, a macerare in quello che resta dopo la spremitura, cioè le vinacce e i graspi. Il mosto diventerà vino e non entra nella marinatura delle rape.
Il sapore è un po' diverso, le rape sono più morbide dei crauti, e meno decise, ma altrettanto buone.
Grazie di essere passata!
L'ho visto questo post, l'altro giorno, quando l'hai pubblicato e arrivo a leggerlo solo oggi, una lettura perfetta per il sabato, una lettura che ti conforta.
RispondiEliminaCome ogni cosa che fai è da salvare nel quaderno delle ricette da fare e rifare.
Ti abbraccio forte e ti auguro una splendida domenica.
Chissà quante ce ne racconteremo in quasi 10 ore di viaggio insieme. Le tradizioni culinarie tramandate dai membri della propria famiglia sono un dono talmente prezioso che è quasi insostenibile doverne fare a meno.
RispondiElimina...ed ecco che all'improvviso ti accorgi che ci sono un sacco di specialità regionali che non conosci o di cui hai sentito parlare,ma che mai hai assaggiato.
RispondiEliminaHo appena finito di cenare e non proprio come un passerotto,ma proverei adesso tutte le tue meraviglie. Complimenti!!
Un abbraccio
Vera
E' molto difficile scrivere un commento a questo post senza essere emozionata. Il tuo filo della memoria si e' dipanato lungo percorsi comuni: cambiano gli spazi, ma i tempi e certe caratteristiche personali sono un retaggio che condivido con te: dalla nonna ruvida con le sigarette nascoste nel cassetto del comodino a quelle storie di fame nera che solo l'ironia di mio padre riusciva a rendere sopportabili ed edificanti, agli orecchi di quelle figlie del benessere che "facevano Natale tutti i giorni". E con te condivido anche quelle note di struggente e contenuta malinconia, che e' il vero filo conduttore delle tue tapas.
RispondiEliminaChe sono pero' una traduzione tutt'altro che lieve della delicatezza dei tuoi ricordi, trascrizione filologica di una gastronomia che e' lo specchio reale di un popolo tenace, silenzioso e gagliardo, quale e' quello a cui tu appartieni. ci hai aperto un mondo, con questo post: ed e' un mondo che ci piace, da qualsiasi parte lo si osservi. Grazie, dal profondo del cuore
Grazie di cuore Alessandra, hai il dono dell'empatia e lo ritrovo in ogni tuo commento e in ogni cosa che fai.
RispondiEliminaGazie ancora.
Che bello il tuo post! Così personale e nello stesso tempo così condivisibile. Mi ha riportato alla memoria le mie estate dai nonni, in scenari tanto diversi, quelli Toscani, eppure così simili nella loro essenza. Mi è sembrato di vedermi sullo stesso albero e in fuga verso una merenda molto diversa, ma che era comunque una festa! Grazie Giuliana.
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