sabato 18 gennaio 2020

Risotto affumicato, crema di porri, petto d'anatra laccato all'arancia e miele, e il mio primo giro in 500

Ho iniziato a lavorare  nella primavera del 1964 che  non avevo ancora l'età consentita,  i 15 anni  li avrei compiuti a dicembre e fino a quella data ho lavorato  in nero per 22.000 lire al mese, poi una volta raggiunta l'età legale,  sono stata assunta come apprendista impiegata e lo stipendio è aumentato a 23.000 lire. Non so come fossi capitata lì, se per un passa parola  messo in atto da mia madre finiti i due anni di Istituo Dardi dopo le commerciali, o chissà che altro, ma ci son rimasta malvolentieri per tre lunghi anni.
Ci mettevo quasi due ore per arrivare in ufficio, prendevo tre mezzi ogni mattina e per essere in orario  dovevo alzarmi quasi all'alba, abitavo in zona Niguarda e dovevo andare in Viale Cassala, 50 minuti di filovie varie,  poi  da lì altri 10 minuti a piedi, non proprio dietro l'angolo.
Parlare di ufficio è un eufemismo. In fondo alla via Carlo Torre, prima di imboccare la via Argelati,  c'era un grande spiazzo di terra battuta contiguo a una grande serra/vivaio,  sulla destra una stradina scendeva verso una specie di grande cratere popolato di baracche di legno raffazzonate,  regno  incontrastato degli straccivendoli che oltre agli stracci accumulavano un po' di tutto. Questo spazio era sovrastato da vecchie casupole basse,   alcune pure diroccate,  retaggio del dopoguerra. In una di quelle,  al n. 44,  c'erano ufficio e deposito  della Carolina Monaci tubolari in ferro. Una bergamasca di Branzi, arrivata a Milano adolescente, dove ha vissuto da sola fino al matrimonio avvenuto alle soglie dei quaranta.
Ricordo due piccole stanzette, un disimpegno con la stufa a legna e il tavolino a disposizione  del Bolla, il fattorino,  e dei rappresentanti  quando venivano in sede,  i pavimenti in assi di legno consumate e sconnesse e ormai senza  più colore che avevi un bel daffare a tenere pulite, dato che si potevano solo ramazzare.  La scrivania   dell'ufficio "padronale" era un grande tavolo di noce scuro molto  lavorato protetto da  un piano di cristallo spesso, con davanti sedie di modello rinascimentale con schienale e seduta in pelle consumata. L'altra stanzetta ospitava me e Enrica,  la mia prima collega,  che mi ha preso  subito sotto l'ala.  Di sotto, il deposito con le lunghe barre di ferro di ogni foggia e misura,  e due operai.
Un luogo davvero squallido, finestre che stavano insieme per miracolo,  topi che ogni tanto scorazzavano tranquillamente in cerca di cibo, e il bagno che consisteva in un piccolo water  ingiallito e incrostato,  situato sotto la scala che scendava al deposito, a disposizione di chiunque.  Affacciandomi alla finestra mi pareva di essere dentro la baraccopoli del film Miracolo a Milano. Era davvero desolante in  eguale modo.
Fortunatamente, dopo un anno vissuto in mezzo agli straccivendoli, ai topi e agli sbalzi d'umore della Monaci,  ci siamo trasferiti nel capannone che aveva costruito sulla Strada Vigevanese nuova, in territorio di Corsico. Per me il cambio significò alzarmi ancora prima quindi,  agli altri,   aggiunsi un altro mezzo pubblico, la corriera blu che da via Lorenteggio portava a Corsico.
In quel periodo la Monaci, che era ormai oltre la cinquantina,  prese la patente.
Tutte le sere,  chiuso l'ufficio, suo marito il Dott. Bruno Calabretta, calabrese doc, le faceva scuola guida nelle vie poco battute su una Fiat  cinquecento bianca.
Una sera  mi chiese di fermarmi un po' di più per aiutarla a terminare delle offerte. Non si preoccupi mi disse, poi  l'accompagneremo  noi alla fermata della filovia. Si fece parecchio tardi, ma alla fine mi fecero salire sulla cinquecento bianca e partimmo alla volta della fermata pensai io, già pregustando la cena di mia madre. E invece no, andammo a fare la sua  lezione  di guida serale in un parcheggio in fondo al Quartiere Tessera. Era la prima volta che salivo su una 500 e  immaginatevi  che, al tempo, per farla partire bisognava fare la doppietta, e immaginatevi  anche una donna di mezza età che non aveva ancora iniziato a fare  una guida privata con l'istruttore. Praticamente si fecero quasi le nove di sera e io rimasi in balia di due coniugi di mezza età che litigavano furiosamente perchè lei non riusciva a partire senza sobbalzare.  Avevo 16 anni, non osavo aprire bocca, di quel lavoro avevo bisogno,  ma non ne potevo più. Poi si resero finalmente conto dell'ora,    deposero le armi e mi invitarono a cena a casa loro. Telefonarono a mia madre perchè non mi desse per dispersa e dopo una mezz'ora  arrivò in tavola un'anatra arrosto, con contorno di patate lesse.  Aveva preparato tutto  la colf prima di andarsene, c'era solo da tagliare e scaldare.
Una carne che a casa mia veniva preparata raramente e solo sotto Natale, una carne che io non apprezzavo particolarmente, ma quella sera fra la fame che mordeva, fra la stanchezza e la voglia di tornarmene velocemente a casa mia, ho divorato nel vero senso della parola.
Una esperienza, quella con la Monaci, che  ricordo senza rimpianto.  Anzi.
Quando arrivai ai 18 anni, mi licenziò. Avrebbe dovuto obbligatoriamente passarmi da apprendista a impiegata, e le sarei costata molto di più visto che avrebbe dovuto versare i contributi,  a quei tempi non previsti per gli apprendisti.
Ebbe il coraggio di trattenermi  dalla liquidazione 2.013 lire  di Ige versata in più per errore sul bollettino giallo. Lei che occultava le provvigioni ai rappresentanti se i loro clienti venivano da soli  a comprare il ferro.  Lei che mi diceva che ero seduta sulla mia fortuna, e che dovevo fare come lei che a 16 anni se ne era andata di casa e aveva conosciuto il mondo. Credo che intendesse in senso biblico.
Però ricordo con molto affetto Enrica, che ho appena scoperto essere mancata recentemente purtroppo, non ho fatto in tempo a  rivederla e mi dispiace moltissimo.  L'unica cosa per cui posso ringraziare la Monaci è che ho imparato a muovermi per tutta la città  dato che mi sguinzagliava in giro a portare documenti, ho imparato a rapportarmi con le persone senza timidezza e   ho imparato  a contrattare con i funzionari dell'Intendenza di finanza di via Manin,   dove mi mandava allo sbaraglio  quando si dovevano definire le tasse da pagare (Vanoni non era ancora arrivato), mi ha  praticamente tirato fuori dal guscio, insegnandomi che nulla è fuori dalle mie capacità. Certo non è poco, ma era una donna impossibile, arrogante, capricciosa e prepotente,  e quei tre anni sono stati davvero pesanti.
Vabbè, bando ai ricordi  e torniamo all'anatra.
Ho imparato ad apprezzarla nel tempo, ma non la faccio spesso. Purtroppo  l'anitra intera si trova più frequentemente sotto Natale, per il resto dell'anno solo cosce o petti, e uno di questi  che avevo in freezer ho pensato  che sarebbe stato molto bene accompagnato da un riso affumicato che ho trovato non mi ricordo più dove.


Risotto affumicato, crema di porri e petto d'anatra laccato all'arancia e miele

per 2 persone di buon appetito


per il risotto
300 g di riso affumicato
3 bei porri
1 piccola cipolla
q.b. di brodo vegetale
100 g di burro
2 cucchiai colmi di parmigiano grattugiato
1/2 bicchiere di vino bianco
sale


per il petto:
1 petto d'anatra
il succo di 3 arance
1 spicchio d'aglio
2 cucchiai  colmi di miele d'acacia
1 cucchiaino di pepe di Sichuan
2 rametti di timo
sale




Parate il petto d'anatra, incidetene trasversalmente la pelle senza arrivare alla carne e facendo una specie di griglia.

Dalle arance, con un rigalimoni ricavate dei filettini, poi spremetele e filtrate il succo raccogliendolo in una ciotola, aggiungete  lo spicchio d'aglio tagliato a pezzetti,  il timo, 1 cucchiai di miele, il pepe di Sichuan pestato nel mortaio e un pizzico di sale, mescolate bene per far sciogliere il miele. Immergete il petto  in questa marinata, coprite la ciotola e mettetela in frigorifero per almeno un'ora.
Dalla scorza delle arance spremute, a cui avrete tolto la parte bianca, ricavate delle strisce sottili.

Mondate e lavate i porri, tagliateli a rondelle e fateli stufare con una noce di burro, aggiungendo un poco di brodo vegetale. Fateli cuocere a fuoco basso coperti, regolate di sale e controllate che rimangano abbastanza lenti, eventualmente aggiungete poco brodo vegetale alla volta. Una volta cotti, frullateli a crema con il minipimer e teneteli in caldo.
Rriprendete il petto dalla marinata, asciugatelo tamponandolo con della carta da cucina e spennellatelo dalla parte della pelle con il restante cucchiaio di miele.
Scaldate un filo  leggerissimo d'olio e iniziate a rosolare la carne dalla parte della pelle. Lasciate che si dori molto bene, ci vorranno circa 5 o 6  minuti, poi giratela dall'altra parte e  fatela cuocere per altri 5 minuti, quindi filtrate il liquido della marinata, conservatene una mezza tazza e col resto  sfumate la carne, continuando a cuocerla per altri 6 o 7 minuti, non di più. Il petto dovrà rimanere rosato.
Togliete la carne dalla padella, avvolgetela in un poco di alluminio e lasciatela riposare.  Deglassate il fondo con  la tazza di marinata tenuta da parte, poi trasferitelo in un pentolino più piccolo, filtrandolo. Rimettete su fuoco dolce, unite le scorze d'arancia  ricavate in precedenza  e  lasciate che si riduca un pochino  poi, fuori dal fuoco,  aggiungete una noce di burro freddissimo e fatelo sciogliere roteando il pentolino, in questo modo il fondo si ispessirà. Tenete in caldo.
Nello stesso tempo  avviate il risotto,  rosolate la cipolla e unite il riso, lasciatelo tostare poi sfumatelo con il vino bianco, quindi iniziate a tirarlo con il brodo vegetale ben caldo. Verso fine cottura, aggiungete il due terzi di crema di porri, lasciate insaporire qualche minuto, giusto il tempo che il riso arrivi a cottura  e mantecate il risotto con il burro e il parmigiano.
Lasciate riposare qualche istante, nel frattempo affettate il petto d'anatra

Infine mettete il riso nei piatti, aggiungete un poco di crema di porri, nappate con il fondo di cottura ridotto, appoggiateci sopra le fette di petto d'anatra, decorate con qualche scorzetta d'arancia  e servite.

Il riso affumicato che ho trovato è questo:
Aprendo il barattolo mi è sorto qualche dubbio,  ma una volta preparato il  risotto, tutto  si è rivelato delicato e per niente invasivo. Un ottimo connubio con la dolcezza del miele e del porro e la leggera acidità dell'arancia.

La Monaci, credo ormai scomparsa,  non saprà mai che l'anatra arrosto di quella lontana sera del 1965 ha lasciato comunque il segno.






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